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L'invitto. Aparajito

Regia di Satyajit Ray vedi scheda film

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La recensione su L'invitto. Aparajito

di Peppe Comune
9 stelle

È già da qualche anno che la famiglia di Apu (Pinaki Sengupta) si è trasferita dalla campagna bengalese alla città di Benares. Ormai è adolescente Apu (Smaran Ghosal) e mentre sogna di diventare sacerdote come il padre (Kanu Bannerjee), coltiva anche l’ambizione di acquisire una vasta cultura laica. La vita scorre serena in famiglia, fino a quando il padre di Apu muore a causa di un improvviso malore. Rimane solo la madre (Karuna Bannerjee) a prendersi cura della crescita del figlio, che ormai consapevole della strada che vuole prendere, decide di approfittare di una borsa di studio ricevuta per il diploma e di frequentare l’università di Calcutta. La madre rimane così sola, contenta che il figlio ami studiare ma anche triste perché non lo vorrebbe così lontano da lei.

 

Aparajito - Upperstall.com

"Aparajito" - Smaran Ghosal

 

“Aparajito” di Satyajit Ray è il secondo capitolo della trilogia di Apu (tutti liberamente ispirati al romanzo “Pather Panchali” di Bibhutibhushan Bandopadhyay) e se ne “Il lamento sul sentiero” osserviamo il bambino che vive con gioiosa inconsapevolezza la condizione di povertà della famiglia, adesso che ha lasciato la campagna bengalese per trasferirsi a Benares osserviamo l'adolescente che si confronta con il trascorrere degli anni e con la necessità di fare delle scelte importanti che riguardano il suo futuro. Un affresco umanista che brilla per pulizia dello sguardo, rigorosa estromissione di ogni eccesso spettacolare e onesta caratterizzazione di personaggi e ambienti. Tutto segue la lenta liturgia del quotidiano, che prepara i suoi giorni portando in dote lutti e aspirazioni, gioie e dolori, amore per gli affetti più cari e voglia di conoscere il mondo.   

Si calcano le orme del Neorealismo italiano ma adattandolo alla condizione sociale dell’India durante i primi anni del novecento : che non ritrae la povertà determinata dal dopoguerra ma quella prodotta dalle soggezioni coloniali, che non si sofferma su personaggi inseriti in un contesto sociale che vuole riemergere dai lutti della guerra ma sui volti avvinti dalla fatalistica accettazione del proprio destino. Il cinema di Satyajit Ray rifonda il cinema indiano poggiandolo su basi solidissime, fatte di cruda aderenza alla vita e accurata caratterizzazione dei personaggi, niente a che vedere con la coreografate e colorate produzioni della Bolliwood che verrà. Ad emergere è l'intenzione di interagire ad armi pari con il cinema di tutto il mondo e di far conoscere al mondo intero la peculiare condizione socio culturale del suo paese.

In tutta la trilogia è presente un uso della tecnica cinematografica di prim'ordine, capace di dire tanto con poco, di generare linguaggio attraverso sapienti piani di ripresa, di penetrare il senso profondo del narrato senza far fare alla macchina da presa particolari voli pindarici (insomma, ricordando non poco lo stile “maestoso" di Yasujiru Ozu). In “Aparajito: (premiato a Venezia con il Leone d’oro) è molto convincente l'uso dei primi piani, che ci danno notizie sullo stato di salute della famiglia più di mille parole, che fanno parlare i silenzi con un’eloquenza che solo chi sa padroneggiare senza timori di sorta le potenzialità creative offerte dal cinema sa e può fare. Bellissimi sono soprattutto quelli che si concentrano sul volto dolente della madre, che ci dicono tutto sulla sua trattenuta sofferenza, sul suo malcelato tentativo di nascondere il dispiacere lancinante della solitudine nella contentezza di vedere il figlio frequentare l'università di Calcutta. Ci sono degli equilibri sociali che se non vengono sconvolti consentono di vivere la vita che è capitata in sorte senza patemi particolari. La madre incarna il mantenimento di queste garanzie minime, frutto di retaggi culturali antichi e di tradizioni familiari da portare avanti. Allo stesso modo, però, i suoi occhi capiscono che i cambiamenti incorsi nell’amato figlio sono lo specchio di un qualcosa che deve accadere. Il suo corpo aspira alla conservazione degli equilibri di sempre perché vorrebbe il figlio vicino a sé. Ma i suoi occhi si confrontano continuamente con la necessaria constatazione che le cose non saranno più le stesse.

Simbolo del cambiamento e appunto il giovane Apu, la cui partenza segna il distacco dal mondo rurale, dove tutto è vissuto in maniera semplice ed è a portata di mano, per incamminarsi nelle strade di una Calcutta tutta da scoprire. È la storia di una lenta ma irreversibile emancipazione quella di Apu, che passa dal mantenimento delle radici culturali di sempre ma col tentativo di rinnovarne i presupposti attraverso l'allargamento dei propri orizzonti cognitivi. Apu ha voglia di conoscere e come gli dice il preside, nel mentre gli offre la lettura di una variegata quantità di libri, “anche se si vive in un angolo sperduto della terra non è detto che non si possa allargare le proprie vedute”.

Ecco, Satyajit Ray ci racconta la vita di Apu facendone un antieroe che lotta per migliorare sé stesso contro le forze che rendono ancora difficile la completa rinascita del suo paese. E lo fa con una semplicità del tocco nel penetrare il centro nevralgico degli umori mutevoli dei suoi personaggi che è solo dei fuoriclasse. Grande Cinema.

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