Regia di Luigi Zampa vedi scheda film
Un bel film sul fascismo, anche perché ha il pregio di essere in “presa diretta”: tratta immediatamente dei voltagabbana che per opportunismo erano fascisti, e che in nome dello stesso opportunismo, si sono proclamati antifascisti della prima ora, non appena il fascismo era stato abbattuto dall’oggi al domani (ovvero, come nel film, al sud nell’estate ’43).
Zampa ha il merito, ennesimo e spesso dimenticato, di toccare a caldo, come detto, un tema scomodissimo: quello appunto del trasformismo in età post fascista. Ciò gli creò immensi problemi con la censura, e che gli costa tutt’ora la scarsissima circolazione di questa pellicola. Che è disponibile in dvd solo dal ’15, ma che ha avuto ben più fortuna, cinque anni prima, di “Anni facili”, che è tuttora introvabile e invedibile.
Su uno dei tanti mali italiani, il trasformismo, Zampa poi ci ha lasciato quello che, a parer mio, è la migliore resa, ovvero “L’arte di arrangiarsi”, nel ‘53. Dopo aver citato la trilogia che, come noto, il maestro romano creò assieme a Brancati (senza dimenticare Anni ruggenti del ’62, sempre sul ventennio), torniamo a questo, che ne è il primo episodio.
Il giovane barone fascista, figlio del podestà, finge di dolersi di non poter andare in guerra, quando in realtà ha fatto di tutto imboscarsi. Qui il grottesco coglie il vero di un ricorrente male italiano, l’inganno: il classico cagasotto imboscato si trincera dietro i pretesti più vari che l’intelligenza, qui sotto la tragica veste di fantasia e disonestà intellettuale, gli mettono disposizione.
Suo padre podestà era primo fascista del paese, poi è il primo a collaborare con gli occupanti americani. Non si vergogna di far perdere il lavoro a un antifascista che lui stesso, prima, aveva costretto a prendere la tessera fascista, pena la perdita del lavoro pubblico. Didascalico è questo passaggio: il podestà obbliga a prendere la tessera a chi non vuole perdere il lavoro, ma è lo stesso sindaco, messo poi dagli americani a quel potere, che toglie il lavoro a chi ha l’unica colpa di esser stato fascista. In realtà chi subisce tale trattamento non era mai stato fascista, semmai il contrario: semplicemente gli è stato fatto pagare per essere un personaggio non direttamente allineato, non smaccatamente opportunista come quasi tutti gli altri. Questo era più facile a mostrarsi in Sicilia, patria del conformismo delle apparenze, e dello sceneggiatore Brancati, ma anche perché lì gli americani arrivarono prima.
Zampa mostra molto bene il tramescare italico: quando Mussolini è al crepuscolo, e l’occupazione americana è all’alba, ecco lì, in quei frangenti, in quei pochissimi giorni l’intelligenza italica sciorina uno dei su cavalli di battaglia. Ovvero l’individualismo opportunista, che porta al trasformismo: in barba ad ogni valore, ad ogni coerenza, si può dire e fare tutto e il contrario di tutto. Senza vergogna: magari la retorica aiuta pure a recitare la parte degli indignati, per credere di potersi salvare dalle dicerie di piazza in un qualche modo, tra palleggiamenti e camuffamenti.
«Ogni antifascista è una cosa sudicia: come ci si può imparentare?». Il film mostra anche bene il dogmatismo orribile, che l’ignorante totalitarismo squadrista ha fatto vincere. Del resto lo stesso protagonista, con audacia impressionante per i tempi, aveva detto, per fugare dubbi sul suo (reale) antifascismo: «Il duce è Dio. Io sono una merda». Ma, dopo aver piegato il capo senza dignità, come tantissimi italiani, quando invece con la guerra tutti i nodi arrivano al pettine, e si pagano le colpe del proprio appoggio indecente al crimine (lì quello fascista), deve fare la sua amara confessione: «Siamo stati tutti vigliacchi: quelli che applaudivano al duce, come quelli lo criticavano di nascosto. Hanno avuto ragione, e non si devono vergognare, solo quelli che hanno avuto il coraggio di dire quello che bisognava dire, e si sono fatti il carcere».
Lodevole è la denuncia di uno dei grandi bastioni del conformismo pusillanime fascista: quello cattolico. «Tu sei cristiana e sei felice che la gente si sgozza e viene sgozzata», può dire il protagonista alla moglie che si eccita di fronte alle stragi che i finti volontari fascisti compivano contro i democratici nella guerra civile spagnola. Moglie (correttamente) definita «cretina», come la figlia, ugualmente fanatica del fascismo per interessi vari. Almeno in casa, l’imbelle protagonista Spadaro un qualche brandello di dignità la tirava fuori. Al matrimonio del figlio il prete può dire: «Avete avuto la fortuna di fondare una famiglia dentro una società prospera, felice, arbitra dei destini del mondo». Una tiritera che insulta ogni intelligenza e verità, ma che in Italia per tanti anni ha prevalso, col plauso delle moltitudini, in modi così scioccanti. Figlia, in generale, di una sconcezza etica ed educativa che però non ha ancora finito di fare i suoi danni. Anzi.
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