Regia di Andrew Haigh vedi scheda film
“God, is not mad?”
Una necessaria caterva non pletorica di precisi e ben amalgamati elementi costitutivi è organizzata a guisa di significativa materia collante (adattando il romanzo “Estate con Sconosciuti” che Taichi Yamada, nato nel 1934 e venuto a mancare pochi mesi fa, pubblicò 35 anni fa, a metà anni ottanta, e che già fu trasposto al cinema a ridosso della sua uscita dal Nobuhiko Obayashi di "Hausu") dal regista e sceneggiatore Andrew Haigh (“WeekEnd”, “Looking - la Serie”, “45 Years”, “Looking - il Film”, “Lean on Pete”, “the OA”, “the North Water”) per creare questo piccolo, immenso, tenebroso, lucente, radioso, tragico e struggente gioiellino umanamente prezioso che porta il nome/titolo di "All of Us Strangers":
• Quattro meravigliosi attori: Andrew Scott (“Sherlock”, “FleaBag”, “1917”, “Catherine Called Birdy”, “Ripley”), Paul Mescal (“Normal People”, “AfterSun”, “Foe”), Claire Foy (“the Crown”, “Unsane”, “the Girl in the Spider’s Web”, “Women Talking”) e Jamie Bell (“Billy Elliot”, “Undertow”, “Flags of Our Fathers”, “Snowpiercers”, “Nymphomaniac”, “Shining Girls”).
• L’indefessamente quasi costante luce radente degli omerico-malickiani rosy-fingered sunrise/sunset metropolitani e suburbani catturata e restituita (montaggio di Jonathan Alberts e scenografie di Sarah Finlay) con grazia perturbante da Jamie D. Ramsay (“See How They Run” e sodale di Oliver Hermanus).
• L’ininterrotto e dosato alla perfezione filo conduttore rappresentato dalle musiche - riverberi di corde, archi, fiati e percussioni molto manipolati e non sempre facilmente identificabili - di Emilie Levienaise-Farrouch (già apprezzata in “Censor”) che – in cronosismatica combutta a-temporale coi sintetizzatori di Frankie Goes to Hollywood, Pet Shop Boys e Fine Young Cannibals (più the Housemartins) e un onirico utilizzo di “Death of a Party” dei Blur magnificamente straziante – punteggiano il fluire dei ricordi intrecciati.
• Il fatto che l’elemento fantasy (“I’m Thinking of Starting Things”, “Adam Is Not Afraid”, “Eternal SunShine of the OverWritten Mind”) s’instauri repentinamente (forse ancor più nettamente che nel romanzo di partenza) e con smaccata franchezza, m’al contempo del tutto naturalmente, nel tessuto della trama in dipanarsi.
- È successo tanto tempo fa.
- Non penso che questo abbia importanza.
- Se conoscessi i vicini correrei da loro e glielo direi subito.
- Non è stato abbastanza, non ci è andato nemmeno vicino con l’essere durato abbastanza.
- Lo so, ma non potrebbe mai farlo, vero?
E che si fotta tutto questo poco tempo a disposizione, che si fotta, davvero.
“Posso abbracciarti adesso?” Ma quand’è adesso? E dove? Qui e ora, e non è ancora irrimediabilmente troppo tardi, forse.
Finale annichilente ed estatico. (E le stelle stanno a guardare.)
“God, is not mad?”
* * * * (¼) - 8.375
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