Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film
Desolata verifica a posteriori del perdurare di un male che affonda le radici nell’uomo e che la guerra serve solo a mettere a nudo.
Shimura e Mifune per la prima volta insieme (l’anno dopo saranno la straordinaria coppia di Cane randagio) in un lungometraggio sui disastri della guerra, nel degrado morale e ambientale dei bassifondi di Tokio, per un tema che in Kurosawa è particolarmente urgente e tornerà anche in tempi ormai lontani da quella tragedia collettiva (Dodés’Ka-dén del ’70), in una desolata verifica a posteriori del perdurare di un male che affonda le radici nell’uomo e che la guerra serve solo a mettere a nudo.
Dunque gli “eroi” positivi, in Kurosawa, possono essere anche “angeli ubriachi” ( “Anche tu credi che gli angeli veri somiglino alle pupattole che frequentano i vostri locali notturni? Gli angeli veri sono come me” dice Sanada, medico collerico e altruista, ubriacone e competente, capace di battute al vetriolo “I giapponesi offrono sempre la loro vita per ideali idioti”, e di gesti di grande dolcezza per la piccola paziente guarita con cui, nell’ultima scena, si avvia cantando a comprare una bella torta alla crema).
Del resto, non aveva già pensato nel ’46 Frank Capra a mostrarci Clarence, un angelo senza ali (“La sua intelligenza non è superiore a quella di un coniglio, ma la sua fede è pura”, confabulano su di lui in Paradiso).
Questa però non è una favola, il Giappone è stato devastato dalla ventata di morte che dall’Europa si è estesa fino all’Asia, travolgendo le coscienze e i destini degli uomini, su Hiroshima il tempo si è già fermato e Kurosawa riuscirà ad esorcizzarne il ricordo solo nel suo penultimo film, Rapsodia d’agosto del ’91.
Ora per l’artista è il tempo della meditazione, quando occorre capire e costruire metafore che sovrappongano il loro dominio concettuale ad una realtà altrimenti incomprensibile.
Matsunaga (Mifune) è un boss tubercolotico in disarmo della Yakuza, feroce malavita nipponica di antica origine che nel dopoguerra ha ripreso vigore.
Sanada (Shimura) vuol curarlo a tutti i costi, gli incontri finiscono spesso con insulti e scontri fisici, Matsunaga è un ribelle, un cane rabbioso che non accetta di essere malato.
Ma Sanada è così, non fa differenza fra i bambini che scaccia a pietrate dallo stagno infetto perché non prendano il tifo, la giovane donna che tiene in casa al riparo dal perverso Okada e questo esemplare di gioventù bruciata, bello, atletico, eppure con un grosso buco nel polmone.
Certo, per far sopravvivere i propri sogni in quel quartiere putrido e di malaffare bisogna bere, anche acquavite pura se non c’è di meglio, ma in fin dei conti Sanada si rialza sempre, anche quando lo scaraventano fuori da un locale a calci, lui cammina nel fango guardando le stelle, chi barcolla e crolla sono gli altri, la vile sgualdrina che abbandona Matsunaga malato per andarsene con il boss vincente, Okada e Matsunaga che si rotolano nella vernice bianca rovesciata sul pavimento in un duello mortale di angosciante lentezza, vite allo sbando, legate a balordi codici d’onore che si chiudono ad ogni ipotesi di riscatto e salvezza.
Lo stagno infetto su cui spesso la macchina da presa torna è metafora dell’immobilismo che impedirà a Matsunaga di evitare la morte, accogliendo le cure del medico e la preghiera della donna che lo ama di andar via con lei, lontano, in campagna.
Mentre il giovane cade colpito a morte da Okada in un radioso mattino di sole, Sanada sta tornando dal mercato nella casa ambulatorio dove crede che Matsunaga lo aspetti per farsi curare. Ha in mano delle uova fresche prese per lui.
“Dopotutto era solo un cattivo gangster ” sarà il suo unico commento.
La pietas di questo umanissimo angelo ubriaco ha perso una battaglia, ma la vita non è una favola e spesso manca il lieto fine.
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