Regia di Milos Forman vedi scheda film
Il grande Milos Forman è assente dalla scena in veste di regista ormai da diversi anni, ed è un vero peccato perché ci sta privando di uno sguardo acuto e disincantato come pochi altri. In un panorama fortemente conformizzato come quello che stiamo attraversando soprattutto per quel che riguarda il cinema mainstream, avvertiamo infatti davvero la mancanza della sua caustica lucidità critica e puntuale, anche se purtroppo dovremo farcene una ragione nel considerarla a questo punto definitivamente irreversibile, più che per l’età avanzata, proprio tenendo conto delle sue precarie condizioni di salute e la particolare, terribile (per un uomo che ha fatto del cinema la sua vita) patologia che lo affligge che non lascia alcuno spazio alla speranza di una possibile “ripresa” (una degenerazione maculare partita dal suo occhio destro, ma che ha un andamento progressivo e si evolve colpendo entrambi i bulbi oculari fino a determinare una permanente cecità).
Dispiace soprattutto per il fatto che il suo congedo (L’ultimo inquisitore, 2006) non sia stato dei più eclatanti (giudizio strettamente personale ovviamente non necessariamente condivisibile da tutti), ma io ho trovato questa sua ultima prova particolarmente deludente, tutt’altro che all’altezza del suo glorioso passato, come ho già avuto modo di spiegare a suo tempo (//www.filmtv.it/film/36846/l-ultimo-inquisitore/opinioni/265346/).
Molto è stato detto e scritto in relazione al suo periodo americano (e ci sarebbe di conseguenza davvero poco da aggiungere al riguardo). Per contro invece, si è persa in parte la memoria (o forse è meglio dire che è adesso molto meno “celebrato” perchè il ricordo si sta facendo sempre più sfumato) per il suo primo periodo in patria, a partire dal titolo del suo esordio (Asso di picche e conseguenti) che fu poi quello che lo consacrò alla storia e gli aprì le porte dell’America (non sempre un fatto positivo come ben sappiamo, ma che lui ha saputo fronteggiare al meglio in più di un’occasione, riuscendo- quasi sempre - a coniugare il suo talento con la politica più commerciale degli studios hollywoodiani, e spesso avendo la meglio, come la sua filmografia può ben documentare).
Perché Forman – è bene ricordarlo – è stato uno dei “giovani” artisti di spicco che hanno dato lustro a quella ormai remota “primavera cecoslovacca” di rinascita negli anni bui della dittatura russa (fra gli altri interessanti nomi della sua generazione che contribuirono al “disgelo”, da ricordare almeno Vera Chytilová, Jaromil Jires, Pavel Jurárek, Jan Nemec e Evald Shorm che non hanno avuto altrettanta fortuna internazionale). Una nazione ferita ma che visse proprio in quegli anni anche cinematograficamente parlando, un periodo di entusiasmante creatività sorprendendo critica e pubblico (per quello che si riuscì a vedere almeno qui in Italia al di là delle rassegne e dei festival internazionali dove fecero man bassa di prestigiosi riconoscimenti che ne ufficializzarono l’importanza, e al di là della già allora patologicamente “avara” distribuzione in sala troppo parziale e “faticosa”, insufficiente a farci percepire appieno l’afflato innovativo di un popolo in momentanea ricerca di riscossa).
Una sorprendete “nova vina” insomma di giovani talenti (fu definita allora “una “generazione senza monumenti”) non solo tecnicamente preparati e decisi a rinnovarsi lungo una linea di originalità narrativa e formale al di fuori di ogni schematico accademismo, ma anche seriamente impegnati a portare avanti l’emancipazione culturale di una nazione per molto tempo tenuta ai margini della storia (un periodo anche politicamente oltremodo interessante e da studiare, ma purtroppo durato troppo poco perché come ormai dobbiamo constatare con rammarico, ad ogni rivoluzione anche culturale, segue poi sempre più prossima, una “restaurazione” e il successivo momentaneo ristagno delle idee) di cui questo Gli amori di una bionda – in originale Lasky jedné plavovlasky, passato anche con formidabile successo dalla Mostra di Venezia, rappresenta una pedina fondamentale insieme anche al successivo Al fuoco, pompieri del 1967, una storia molto minimale che attraverso la satira corale dei costumi di una provincia disastrata, mirava a colpire ben più “alti” obiettivi, con quel suo essere “deliziosamente amabile” nel contrabbandare fra le righe una feroce denuncia che non a caso fu prontamente “intercettata” perché il film non solo fu proibito dalla censura, ma suscitò anche le ire dei vigili del fuoco.
Indubbiamente meno originale del titolo del suo esordio (quell’Asso di picche – Cerny Petr in originale, una intelligente commedia ironicamente spregiudicata ma intrisa di una forte dose di realismo sui contrasti tra padri e figli tutta sviluppata sul piano delle idee e sul modo di vedere la vita di quegli anni, che nel 1963 sorprese il mondo e fece incetta di premi nelle varie competizioni a cui fu invitata a partecipare: gran premio e premio della giovane critica a Locarno; premio della FICC e della rivista “Cinema” a Venezia; premio dei critici cecoslovacchi, definita “un piccolo gioiello di fine umorismo” da Gaetano Strazzulla per quel senso di autenticità che trasmette attraverso la scelta di interessanti modalità di ripresa, con una cinepresa quasi sempre piazzata lontana dagli attori, per poterli riprendere così in piena libertà nella naturalezza assoluta dei gesti e delle posture). Anche Gli amori di una bionda mantiene comunque analoghi elementi di freschezza narrativa nel raccontare con stile quasi documentario una storia che prende spunto da un episodio realmente accaduto. Una pellicola insomma nella quale con intelligenza e garbo, Forman adatta il suo stile (qui in apparenza un po’ dimesso e bozzettistico come potrebbe sembrare a una prima, superficiale lettura) alle cadenze del racconto seguendone i ritmi pacati e adeguandosi con particolare efficacia ai toni di una satira indubbiamente lieve, ma sottilmente perfida e criticamente pregnante.
Il film (come potremo forse capire poi molto meglio dalla storia sulla quale mi soffermerò nella parte conclusiva della mia opinione) sfiora diversi temi importanti, appartenenti indubbiamente a una realtà “minore” (o meglio ancora, “marginale”) ma non per questo meno significativamente viva e complessa. Ne esce di conseguenza fuori una nuova commedia forse ancor più amara e pungente di quella del suo esordio, che prova a colorare di rosa la realtà quotidiana della vita con i suoi disagi, le contrarietà e i tanti problemi da affrontare, rivestita però di un’invidiabile, genuino “spontaneismo espositivo” che pone la sua visione lontana anni luce dal bozzettistico andamento di altre opere che in quegli anni trattavano lo stesso argomento, perché qui sotto quell’apparente levità di tocco, c’è tutto il disincanto critico del suo sguardo.
L’osservazione del mondo giovanile e delle sue reazioni all’ambiente (e agli stimoli persino controversi che ne derivavano) in cui si trovava a dibattersi in quegli anni in Cecoslovacchia, viene così tradotta e riproposta sullo schermo con una immediatezza e una reinvenzione molto personale e mediata che a mio avviso lascia trasparire anche una piccola dose di autobiografismo: delinea infatti situazioni e descrive stati d’animo, con una sincerità insolita e disarmante, ricca di particolari che indicano una conoscenza diretta delle cose e intrigano parecchio, e soprattutto stuzzicano la curiosità dello spettatore.
Forman insomma racconta questa vicenda che è in fondo anche un po’ crudele, con toni amari e privi di “romantiche illusioni” ma al tempo stesso – come ho già detto prima - anche teneramente affettuosi, mettendo così in ridicolo (in quel modo “sottile” ma efficace che è una delle sue principali prerogative e che si ritroverà in altre successive produzioni anche americane come Taking of) tutta la gamma delle astiose prevenzioni delle tipiche famiglie borghesi di vecchio stampo e il loro moralistico perbenismo di fronte alla spregiudicatezza di un’adolescenza moderna e già dai costumi piuttosto liberi, per una mentalità alquanto antiquata e vecchio stile.
Ma come sempre nel cinema di Forman, è anche la forma ad assumere una fondamentale importanza e che nemmeno in questo film si smentisce, poiché vi si ritrova una inusitata ricchezza di invenzioni visive, di soluzioni narrative e di montaggio, oltre che di improvvisazioni espressive (il valore aggiunto della “spontaneità” non controllata degli attori) che lo rendono davvero delizioso. Il tutto, accompagnato da una sincera simpatia (molto umana e “sentita”) per i due giovani protagonisti e per i loro problemi (da segnalare al riguardo la felice sequenza della notte d’amore, ottimo esempio di quello che la critica ha definito lo sguardo fenomenologico della prima fase creativa del regista).
E’ da sottolineare poi che l’indagine di costume (qui particolarmente evidente) non risulta scollegata né disomogenea rispetto a quel dibattito ideologico che interessava prioritariamente tutti i registi di quella nuova e vivace corrente e che come già accennato prima, intendeva opporsi con intelligente vivacità a quel cinema celebrativo e retorico, a quegli “eroi positivi” tanto cari ai burocrati e ai piccoli ideologi del partito. Andula e Milda (i due protagonisti della storia) sono infatti rappresentati come due giovani che, nell’attimo in cui si affacciano alla vita, “vogliono capire”(ciascuno alla sua maniera, naturalmente), per poter poi imboccare la strada giusta e proseguire così il cammino che ritengono per loro più congeniale, magari pagando di persona i possibili errori dovuti alla propria inesperienza. Due ragazzi “assetati di conoscenza” che intendono scoprire non solo il vero volto della vita, ma anche e soprattutto, che cosa vi sia in esso di vero e di falso, lontani da ogni possibile ipocrisia di facciata..
Gli attori, tutti perfetti nel disegnare al meglio i loro personaggi, sono per lo più dilettanti (che il regista prende per mano con delicata partecipazione). Come nota di costume, posso segnalare comunque che Hana Brejchová che interpreta la parte di Andula, era nella realtà la sorella della prima moglie del regista.
Come ultima annotazione, devo segnalare che chi dovesse vedere il film non nella sua versione originale, ma recuperando quella a suo tempo distribuita nelle sale italiane, non si lasci influenzare negativamente da i titoli di testa (deturpati dalla distribuzione italiana con la sovrapposizione di una Caterina Caselli che canta “Nessuno mi può giudicare ripresa anche (insensatamente) nel finale (ovviamente non presente nella pellicola concepita da Forman) e che c’entra davvero come i cavoli a merenda – come recita un proverbio toscano: un altro evidente tratto caratteristico di un malcostume tutto italiano che ci fa vergogna e che si perpetua anche nel presente con le sue frequenti manipolazioni apocrife di dubbio gusto (dove anche il doppiaggio spesso aiuta a “storpiare” e addolcire per addomesticarne il senso). Ma cosa possiamo fare oltre che denunciare e indignarci? Poco o nulla di fronte a questa atavica imbecillità nostrana.
Protagonista della storia, è Andula, una graziosa e piacente biondina che lavora in un grande calzaturificio di un piccolo paese montano poco distante da Praga.
Dopo una fugace avventura con un guardiacaccia già sposato e un ancor più burrascoso flirt con un motociclista (un piccolo dongiovanni di provincia), la ragazza passa una notte d’amore con Milda, un giovane e spensierato pianista conosciuto a una festa da ballo, un rapporto che la ragazza vive con appassionata intensità. Al mattino, prima della sua partenza, il giovane la invita ad andare a trovarlo a Praga. La biondina ovviamente prende sul serio le parole dell’amico e, dopo qualche giorno, si presenta senza alcun preavviso a casa sua con la sua brava valigetta dove ha riposto le poche cose che si è portata dietro.
Viene però accolta poco amabilmente dai genitori del giovane, disturbati mentre placidamente sonnecchiavano davanti al televisore, ma anche lo stesso Milda nel frattempo arrivato a casa, tratta invero la ragazza con altrettanta asprezza: seccato per quell’arrivo inopinato e imbarazzante, le cede di malavoglia la sua camera e va a dormire in quella dei suoi genitori. Andula che ascolta dietro la porta i loro discorsi di disapprovazione, si convince così che la sua presenza in quella casa è tutt’altro che gradita e che il ragazzo non manifesta una analoga passione nei suoi confronti.
Delusa e un po’ ferita nell’orgoglio, se ne va allora in piena notte, piangendo per quel sogno d’amore (che era poi a quei tempi quello di ogni ragazza per bene) che si è infranto così maldestramente.
Torna di conseguenza alla fabbrica di scarpe e riprende il suo squallido e monotono lavoro di operaia, un tantino disillusa ma non privata del tutto di una speranza più positiva nel futuro (caparbia, : racconta a tutti, mentendo vistosamente anche a se stessa, di aver vissuto una meravigliosa storia d’amore, anche se poi quando resta solo continua a spargere calde lacrime sulla sua fallace illusione di una notte. Un’esperienza in ogni caso molto importante per la sua maturazione, quella che ha vissuto, che le ha indubbiamente insegnato qualcosa (probabilmente addirittura “molto”) come ci lascia intuire il suo mesto sorriso colmo di tristezza ma pieno di consapevolezza con cui si congeda nel finale: l’amore vero, quello che si definisce con la A maiuscola, verrà (forse) più tardi. Mai perdere la speranza e continuare invece a lottare per arrivare a raggiungere i propri obiettivi.
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