Regia di Claudio Caligari vedi scheda film
Tra Ostia e la periferia romana, agli inizi degli anni '80, arrivano alla consunzione le vite di alcuni ragazzi drogati, che trascinano le loro esistenze totalmente allo sbando, tra la ricerca con ogni mezzo - che sia furto, rapina o quant'altro - lecito o illecito che sia, di una somma di denaro (una 'piotta', in dialetto romanesco, corrispondeva a 100 mila lire) per acquistare la dose di eroina per sballarsi, la trattativa con lo spacciatore di turno, che cerca anch'egli di fregare il tossico, vendendogli eroina tagliata, ancora più pericolosa, se possibile, di quella pura, l'iniezione della droga e quello che ne consegue, lo 'sballo' come lo chiamano i protagonisti, che, nella peggiore delle ipotesi, porta agli esiti più tragici.
'Amore tossico' è la sconvolgente, disturbante e coraggiosa opera prima di Claudio Caligari, che aggiorna la lezione pasoliniana dei suoi film degli esordi, aventi come protagonisti individui provenienti dal sottoproletariato degli anni '60, trasponendola al periodo in cui il film uscì, ambientando quindi la sua storia nel sottobosco dell'hinterland romano, con attori letteralmente presi dalla strada, essendo tutti o quasi con trascorsi e anche con ancora in corso a quell'epoca tossicodipendenze varie, che porteranno, di lì a pochi anni, alcuni di loro a una morte prematura.
Il film segue le vicende di un gruppo di sbandati - Cesare (Ferretti), Michela (Mioni), Enzo (Di Benedetto), Roberto, detto Ciopper (Roberto Stani) e Loredana (Ferrara) - con dosi di realismo tale che si giunge a sequenze di taglio documentaristico, che mostrano in maniera cruda e diretta l'iniezione in vena della droga, senza giri di parole alcune o discorsi sociologici di sorta, mostrando con brutalità gli effetti devastanti delle sostanze stupefacenti su chi ne fa uso, con inquadrature in dettaglio degli occhi strabuzzati, la nausea e i conati di vomito, per giungere fino a spasmi e convulsioni, anticamera di overdose, che portano alla morte una delle malcapitate ragazze del gruppo, Michela, che simbolicamente ha la crisi fatale sul piedistallo del monumento di P. P. Pasolini.
Fondamentale per la credibilità e la resa della storia, la scelta da parte di Caligari dell'uso del dialetto locale e di termini gergali (la siringa detta 'spada', la ricerca della dose 'svortà'), mentre la musica, a tratti, è eccessivamente frastornante: il film risulta teso e compatto nella sua interezza, con qualche indecisione verso la fine, quando dalla coralità si passa all'analisi della relazione tra Cesare e Michela, che trascende verso il mélo, e soprattutto nella criticata (da molti) ultima sequenza, dove l'intervento di due agenti mette fine alla corsa di Cesare. Le forze dell'ordine, che sparano semplicemente perché vedono un uomo che corre, per chi scrive, pare una visuale eccessivamente 'politica' e del tutto scollegata da quanto (di bello, dal punto di vista filmico, s'intende) mostrato prima.
Buona la fotografia dalle tonalità sbiadite - per evidenziare ancor più il quotidiano grigiore delle vite alla deriva dei giovani - di Dario Di Palma, e non eccelsi ma funzionali ai loro personaggi gli interpreti.
Un pugno nello stomaco, non bene assimilato dai vertici del cinema italiano, che hanno sempre osteggiato da allora il neo-regista, prova ne sono i suoi soli tre film in oltre trent'anni di carriera.
Voto: 7,5.
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