Regia di Károly Makk vedi scheda film
Piccolo film ungherese sull’amore, che è un ansimo di nostalgia, scandito dal respiro della memoria. Per l’anziana protagonista di questa storia, una madre costretta in un letto, l’affetto per il figlio lontano è vissuto solo col pensiero. L’uomo, in realtà, è in prigione per motivi politici, ma la nuora Luca le fa credere che sia un grande attore, in trasferta negli Stati Uniti per girare un film molto importante. Così, per quella povera donna, la vita, ormai ridotta a pura immaginazione, si svolge tutta al di qua della verità, dentro quella stanza in cui il mondo può assumere la forma che gli si vuole dare. Lettere fasulle, provenienti da un’America di pura fantasia, diventano per lei il punto di partenza di viaggi visionari, che la portano dall’altra parte del globo e sono plasmati sul modello dei suoi sogni di gioventù. La storia è andata in stallo, e la fine incombe, però quello spazio chiuso congela il senso della morte, lasciando entrare la benefica aria della speranza. Chi non sa e non vede, può continuare a illudersi. La ripetitività di un’esistenza bloccata consolida la sensazione che tutto vada avanti come sempre, che la normalità prosegua senza problemi, lasciandosi magari, di tanto in tanto, illuminare dall’arrivo di qualche buona notizia riguardante quel János che è diventato famoso, ed abita in un castello, circondato da servitori e guardie del corpo. Nei luoghi in cui regna il vuoto, la favola entra senza sforzo, invadendo tutto lo spazio disponibile. Per quella madre solitaria, fantasticare equivale a sopravvivere, perché, nella sua situazione, la mente deve costantemente lavorare al fine di costruire un motivo per cui valga la pena di resistere. Il delirio dell’agonia è l’attaccamento alla vita che lotta, contorcendosi, per non farsi strappare dall’anima quei piccoli gioielli di felicità. Da parte di Luca, mantenere in piedi quella pietosa bugia significa far sì che quella energia combattiva non si esaurisca mai; e rilanciare, fino all’inverosimile, è l’unico modo per fornirle sempre nuovi stimoli. Il regista Károly Makk trae, dall'omonima raccolta di racconti dello scrittore Tebor Déry, un’elegia dell’invisibile, che qui diventa un'immagine proiettata sullo sfondo di una realtà scarna e fredda. È l’utopia sorridente che aleggia sopra un mondo triste e stanco, un po’ come il concetto della primavera, che astrattamente evoca l’idea dei fiori, delle temperature miti e del bel tempo, ma in questa storia si manifesta come un periodo grigio, freddo e piovoso. La desolazione si estende laddove tutto ciò che faceva palpitare il cuore si trova oltre la linea dell’orizzonte, come un marito che si può incontrare solo saltuariamente, guardandolo attraverso le sbarre. Il suo ritorno, invocato da madre e moglie per tutta la durata del film, è il desiderio sovrano che determina il corso dei loro giorni, alimentando il loro rapporto, nel quale complicità e rivalità si fondono in un intimo nodo di disperazione condivisa. Quel ritorno, vagheggiato da entrambe, è l’elemento che le unisce, aprendo loro una finestra sul futuro: la loro storia, che si svolge quasi per intero dentro una camera da letto, sarebbe nulla senza quella prospettiva, che pure è solo virtuale. La possibilità di riabbracciare János offre loro un argomento di cui poter parlare ed un’ipotesi su cui basare le loro riflessioni. La comune attesa le tiene attaccate una all’altra, perché è coperta di uno splendore che cancella le loro piccole discordie. Un astro che, presto a tardi, ricadrà sulla terra, e si rivestirà del manto opaco della concretezza. Ma prima di allora, il cielo del crepuscolo rimarrà cosparso di stelle.
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