Regia di Luis Buñuel vedi scheda film
Bunuel adatta un romanzo di Emmanuell Robles, evidentemente attratto dalla trama. Non è tra i suoi capolavori, ma è comunque da vedere.
Siamo nell'ambito del cinema classico tipico degli anni '50, cioè il melodramma a base di amori, tradimenti e tragedie. Tuttavia Bunuel ne fa un'opera abbastanza personale, benché non tra le sue migliori. Innanzitutto la storia del fattore sfrattato dal padrone guadagna via via più spazio, fino a mettere in secondo piano la vicenda sentimentale del medico protagonista. Oltre a ciò, la trama non vede tanto un uomo travolto dalla passione per un'altra donna, quanto il personaggio che, passo dopo passo, si ribella all'ambiente in cui è vissuto fin'ora, soprattutto quanto ai legami matrimoniali e di posizione sociale. Ad un certo punto, l'uomo decide di dare un calcio ad essi, quasi in rivolta contro l'alta società e i suoi soprusi.
Il modo in cui si prende a cuore l'omicida è così forte, che il sentimento sembra celare un disprezzo accumulato e represso per lungo tempo per tutto quel mondo rappresentato dal padrone della vigna. Quindi l'intera vicenda si può inquadrare come la storia di una ribellione, che ha però almeno una vittima innocente, cioè la moglie. Se il suocero, infatti, è odioso, la donna sembra semplicemente l'infelice consorte di un marito che non la ama più.
È quasi superfluo rilevare come una storia di questo tipo non appaia improbabile per uno come Bunuel, che notoriamente non ha mai amato la borghesia. La sua regia è pacata e pulita, uno stile dove anche i momenti più drammatici sembrano smorzati e contenuti sotto il rigo. È comunque una regia di cui si può apprezzare la costante precisione e pulizia formale.
Quanto ai tocchi tipicamente bunueliani, posso rilevare il vezzo delle due scene in cui ad un personaggio cade di mano il fazzoletto mentre cammina per strada, il quale va ad adagiarsi proprio nel rigagnolo di acqua sporca al centro della via. Sono due scene troppo simili per non notarle: probabilmente è un simbolismo senza significato, come piaceva al regista di Calanda, praticamente uno scherzo o burla. Altro tocco è il particolare assurdo del medico che non vuole lavarsi le mani prima di visitare gli ammalati, ma solo dopo – e anche questo per due volte. La sua spiegazione è tanto disinvolta quanto enigmatica, o forse senza senso: “io non ne ho bisogno”. E perché? Verrebbe da chiedere. Infine, c0è il quadretto del volto di Cristo con i cavi dell'elettricità che gli passano attraverso. Sembra il frutto di un'allucinazione, come quella del “Cristo che ride” di un altro film. Del resto, Bunuel era un non credente che non smetteva mai di pensare alla fede.
In generale mi è piaciuto abbastanza, ma non è brillante come altri film del regista. Gli attori sono bravi, ma Gianni Esposito nella parte del fattore, secondo me recita male; ha un'aria svagata e apatica che non mi ha convinto.
Il commissario di polizia – Julien Bertheau – sarebbe stato il vescovo ne “Il fascino discreto della borghesia”. Anche qui l'attore ha un'espressione ambigua e accigliata, con uno sguardo torbido, che lo rendono interessante. Georges Marchal e Lucia Bosè sono i belli della situazione, ma se la cavano bene.
PS
Mi è parso di riconoscere il regista in una comparsa: un operaio con un sacco di juta sulle spalle, col quale uno dei personaggi scambia qualche battuta. Chissà se è lui.
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