Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
Mohei (Kazuo Hasegawa) è l'operaio più fidato del signor Kozè (Eitarô Shindô), il primo stampatore della città di Kyoto. Una serie di equivoci, associati ad una fitta rete di intrighi messi a punto da chi ha tutto l'interesse ad infangare il prestigio della casata di Kozè, inducono a far credere che tra sua moglie O-San (Kyôgo Kagawa) e Mohei ci sia una tresca amorosa. In realtà i due non sono mai stati amanti e l'esplosione del loro amore scoppia in tutta la sua più genuina purezza solo quando sono costretti a lasciare furtivamente la città per sfuggire all'assurda usanza di crocifiggere gli amanti adulterini. L'attrazione reciproca c'è sempre stata e se la confessano senza reticenze quando scoprono vicendevolmente che solo chi gli sta di fronte è capace di amarlo fino alla morte, di sfidare il meccanismo di morte che si erge a difesa di un sistema di regole assurde.
"Gli amanti crocifissi" è un'altro capolavoro di Mizoguchi, un'altro film che indaga sul Giappone del diciassettesimo secolo, un paese dominato dalle caste feudali il cui prestigio doveva essere difeso a qualunque costo, anche riducendo l'essere umano alla stregua di un oggetto, anche innalzando barriere di ipocrisie per condannare la genuinità di un sentimento coltivato come un fiore raro. Credo che la forza del film stia nel modo assolutamente antiretorico di presentare l'amore tra un uomo e una donna, anzi di caricarlo di senso per renderlo uno strumento di lotta politica prim'ancora che un sentimento. Nella bellissima sequenza in barca sul lago di Biwa, in un'ambientazione sospesa tra realtà e sogno, Mohei e O-San pronunciano l'uno l'amore verso l'altro. E' il momento dell'ufficialità dei loro sentimenti, la consacrazione del loro essere amanti e quindi la consacrazione di un ruolo socialmente bandito. Ormai liberi degli orpelli sociali che avevano sempre soffocato le vicendevoli intenzioni e ormai consapevoli di aver intrapreso una strada tracciata per loro dagli imprescrutabili disegni dell'animo, Mohei e O-San si promettono senza indugi amore eterno ben sapendo che nella società in cui vivono la loro dichiarazione d'amore equivale a una dichiarazione di morte. Amore e morte, è sempre cosi con Mizoguchi. Ogni slancio emotivo è rimesso in riga dal rispetto di un preciso codice comportamentale, ogni esaltazione dell'io come agente autonomo è soffocata dalla rigida chiusura corporativa. Per un siffatto sistema di cose, l'amore vero è un rischio troppo grande, è un tarlo che insinua l'azzeramento di ogni dislivello sociale, di ogni imposizione artatamente imposta. Da qui l'assurda trama che incide profondamente la poetica dell'autore giapponese, che la percorre in lungo e in largo: l'amore e la morte non rappresentano due entità antitetiche ma sono una l'emanazione dell'altra. Non c'è spazio per la sincerità delle emozioni senza sofferenza e non c'è possibilità per l'uomo che quella di essere l'architrave di una società retta dalla protervia dei maschi. Non può derogare da questo ruolo sacralizzato dal tempo. Non può lasciarsi coinvolgere liberamente dall'amore per una donna senza perire insieme a lei. E' sconvolgente come Mizoguchi riesca a rappresentare l'aridità dei sentimenti umani e come per contrasto sappia mostrarci magistralmente la dolcezza che è come un fiore che sboccia in mezzo al deserto. E' sempre la donna la pietra angolare della sua poetica. E l'uomo quando gli si concede devoto.
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