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L'alibi era perfetto

Regia di Fritz Lang vedi scheda film

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La recensione su L'alibi era perfetto

di OGM
8 stelle

Intrigante Fritz Lang hitchcockiano, basato sulla provocatoria tesi secondo cui la menzogna costruita ad arte è più credibile della verità. Un film poco suggestivo e molto concettuale,  in cui il linguaggio è particolarmente asciutto, poco spazio è lasciato all’immaginazione, e la ragione è costretta a seguire il filo logico dell’ovvietà. Questo legal thriller gioca a carte scoperte, e il suo esito è scontato, mentre a creare la tensione è lo sviluppo di una singolare messinscena:  l’interrogativo, che si sviluppa nel corso della vicenda giudiziaria, riguarda il modo in cui l’immagine del protagonista, lo scrittore Tom Garrett, che vuole farsi passare per l’assassino della ballerina Patty Green, si modifica agli occhi degli altri personaggi. L’uomo semina, intorno a sé, prove su prove, aspettando il momento in cui su di lui cominceranno a formarsi i primi sospetti. La metamorfosi da persona integerrima a probabile omicida è un processo impercettibile, che pure va rapidamente a segno, producendo certezze fondate sul nulla, e senza passare attraverso l’anticamera del dubbio. La discontinuità tra le vecchie convinzioni e le nuove rivelazioni suscita sconcerto, soprattutto in Susan, la fidanzata di Tom, eppure il ribaltamento viene immediatamente accettato.  Ciò in cui si crede procede per salti, e poggia su un numero limitato di ipotesi predeterminate: nella mente degli investigatori e dei giurati, la congettura secondo Tom sarebbe il colpevole precede la considerazione degli indizi, che non vengono analizzati, con imparzialità, nella loro effettiva portata, perché di essi si valuta soltanto la compatibilità con l’impianto accusatorio, escludendo tutte le altre possibili implicazioni. Innumerevoli sono, ad esempio, i motivi per cui nel portaoggetti di un’auto si può trovare una calza da donna. La sua presenza può derivare da infinite situazioni, ma tra le tante concepibili, nell’aula di un tribunale, si tira in ballo solo quella che si intende provare: la supposizione preliminare dirige le indagini e la serie delle deduzioni, indirizzandole, in definitiva, verso se stessa. Secondo questo meccanismo, la conclusione coincide, in pratica, con la premessa che si è deciso di adottare.  Questo film può sembrare piatto, privo di sfumature, un giallo senza storia, per farla breve, in cui non c’è nulla da capire, perché tutto è assolutamente evidente. L’effetto, naturalmente, è intenzionale, perché è proprio il pensiero a senso unico l’argomento di cui il soggetto di Douglas Morrow ci vuole parlare: è il diffuso vizio intellettuale che predetermina le sorti dei processi, secondo una sorta di legge del più forte.  Ciò che, citando il titolo originale (è del tutto fuorviante quello italiano), si colloca al di là di ogni ragionevole dubbio è, infatti, soltanto ciò che qualcuno ha voluto abilmente presentare come il comune denominatore di un certo numero di fatti,  adeguatamente scelti all’interno dell’infinità di dati di cui si compone la realtà. Non si tratta soltanto di sostituire al rigore della deduzione (in cui due presupposti correlati in maniera esplicita ed inequivocabile generano una conseguenza) lo strumento imperfetto dell’abduzione (in cui il legame tra i due presupposti non è univoco, ed è solo presunto): in casi come questo, l’abduzione risulta artatamente pilotata verso un certo risultato, quello preferito dal pubblico ministero e dall’opinione pubblica, che è ben lungi dall’essere l’unico ammissibile. Il messaggio racchiuso in questa storia non sarebbe stato altrettanto incisivo se il contesto e il contenuto fossero stati più ambiziosi  e complessi. Povera è la trama, poveri gli spunti processuali, poveri i profili psicologici dei personaggi: questo ordinario microcosmo del banale è l’habitat naturale dei luoghi comuni, che solo in un ambiente così dimesso e disadorno possono regnare indisturbati, facendo,  pur insulsi come sono, il bello e il cattivo tempo. 

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