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L'alibi era perfetto

Regia di Fritz Lang vedi scheda film

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La recensione su L'alibi era perfetto

di (spopola) 1726792
8 stelle

“L’alibi era perfetto”  è l’ultimo lavoro realizzato durante la prolungata trasferta americana di Fritz Lang dopo la sua “fuga” dal nazismo. Poco compreso alla sua uscita, è stato valutato a lungo da una considerevole fetta  della critica del tempo, come un’opera minore e un po’ stanca, abbastanza lontana dai vertici assoluti dei suoi capolavori, probabilmente per il solo fatto di appoggiarsi su una drammaturgia meno complessa di molte sue opere precedenti, come per esempio “Quando la città dorme”, ma anche  a causa di una insolita “glacialità” dello sguardo  (per altro amplificata dagli interventi della produzione che, come scrive il Morandini, “maciullarono” un poco il risultato), tutti elementi  che suscitano sempre prevedibili  perplessità quando ci si trova un po’ “spiazzati” e impreparati a dover affrontare qualcosa che ci appare – e non sempre lo è davvero - molto diverso da ciò che ci si aspettava di trovare . Da altri invece (e il numero nel tempo è fortunatamente  in forte crescita) è stato considerato da subito come un’opera in cui la “presunta” neutralità stilistica – tutt’altro che una limitazione e un difetto – è invece frutto di  una consapevole e ragionata scelta registica, il “mezzo” ideale per la “dimostrazione” di un teorema, o meglio di una tesi, che è poi sempre riconducibile alla tradizionale riflessione langhiana (qui volutamente più gelida e più amara del solito) che attraversa praticamente tutta la sua filmografia, ne diventa il nodo centrale: una sempre lucida e inquietante riflessione proprio sulle responsabilità dell’individuo e la fallibilità dell’idea che abbiamo della giustizia  e non solo per come poi questa viene applicata realmente nella pratica. Non a caso, l’ultima immagine del film  è quella di un uomo che si avvia verso la sedia elettrica (nessuno spoiler, state tranquilli, poiché non sto rivelando “nulla di definitivo” visto che evito di indicare l’identità di quell’uomo, e sopratutto come e perché finirà per esserci arrostito sopra, visto che di “ribaltamenti” di prospettiva ce ne sono molti nel corso dell’opera, esattamente fino a due minuti prima della fine). Sembra quasi allora – e questa sintesi conclusiva lo sta a confermare - che l’unica verità  davvero inconfutabile  per il regista, sia proprio la constatazione che l’uomo è comunque colpevole e non può quindi fare altro che avanzare verso la morte (Renato Venturelli, “L’età del noir – Ombre, incubi e delitti nel cinema americano, 1940-60”).
Sceneggiata da Douglas Morrow , la storia è quella dell’ex giornalista Tom Garrett (interpretato da Dana Andrews) che il futuro suocero, l’editore di giornali Austin Spencer (Sidney Blacker), convince a diventare parte attiva nella  battaglia intrapresa contro la pena di morte, e a seminare falsi inizi a proprio carico per farsi accusare dell’omicidio di una ballerina, il cui assassinio è rimasto impunito. Secondo il piano prestabilito, il suocero dovrebbe poi esibire all’ultimo momento le prove della sua innocenza, ma le cose non andranno nella maniera prevista, e il processo si risolverà in una serie interminabile di colpi di scena che non è il caso di svelare per non togliere il piacere della sorpresa. Il canovaccio permette al regista di costruire un perfetto meccanismo ad incastro capace di catturare non solo l’attenzione, ma anche l’intelligenza attiva dello spettatore per meglio “scardinare” (mettere in dubbio) le certezze rassicuranti di chi crede nell’esistenza di una sola verità, ribadendo però allo stesso tempo, il concetto e  l’idea che nessuno può dirsi davvero innocente.
L’artificiosità del racconto e le immagini utilizzate per realizzarlo (a prima vista più anonime del solito), corrispondono invece a una ricerca di universalità che va oltre il semplice caso narrato, mentre la serrata concatenazione degli intrighi (una fredda esposizione razionale dei fatti che  non  privilegia nè sopravanza sugli altri alcun accadimento specificio "isolandolo" in primo piano, ma tratta tutto "geometricamente" assegnando analoga importanza anche al dettaglio), non è un semplice e superficiale meccanismo di “spettacolarizzazione degli eventi” un pò tirato via,  ma  bensì un elemento indispensabile alla realizzazione del "disegno generale" che serve proprio ad  evidenziare, rappresentandole, le forze anche contrapposte da cui sono attanagliati  i  personaggi della storia, a loro volta prigionieri degli avvenimenti.
Un film difficile dunque, di un grande regista che ha scientemente rinunciato a ogni orpello narrativo, realizzando così un’opera  modernissima, di un pessimismo abissale, che ha fatto dichiarare a Jacques Rivette: “Se questo film è negativo, non può esserlo che alla maniera della negatività pura che, come è noto, è anche la definizione hegeliana dell’intelligenza”,  dove davvero nessuna persona può ritenersi incolpevole: certamente non il procuratore distrettuale che  fa carriera sulle condanne a morte e le utilizza soprattutto a questo scopo, né tantomeno l’imputato presunto colpevole o presunto innocente che sia, o la fidanzata  che si confermerà pronta a liquidarlo moralisticamente senza troppo pensarci sopra.
Partendo da una  posizione eticamente encomiabile ma abbastanza scontata contro la pena di morte, Lang estrae dunque dal magma infuocato degli eventi, quelle che sono proprio le tematiche ricorrenti del suo fare cinema, come già detto sopra,  come il rapporto fra bene e male, o più concretamente fra colpevolezza e innocenza, e lo fa ricorrendo a un continuo rovesciamento di posizioni che tende a confondere le idee ma che riesce invece a fornire  una precisa visione quasi  simbolica dell’evidenza “realistica” e cangiante delle cose e a stigmatizzare appunto l’impossibilità oggettiva dell'equità giusta e imparziale, oltre che veritiera, di ogni sentenza giudicante espressa dalla fallace umanità, poiché in questo film, davvero, la realtà "effettiva" sfugge a tutti: alla trappola pianificata del suocero, al dibattito giudiziario costruito su indizi che sappiamo essere manipolati (creati ad hoc), alle pretese “prove” fotografiche realizzate per “raccontare” una  possibile verità, persino alla televisione e ai giornali che sono parti attive nella divulgazione amplificata delle notizie.
Il film si può leggere allora anche come una lucida riflessione sulla “messa in scena” (e sulla sua ambiguità), non solo da parte di Tony Garrett rispetto ai piani di Spencer (e per capire esattamente cosa intendo, bisogna vederlo il film, o altrimenti, svelare il finale), ma anche del regista rispetto all’attenzione dello spettatore (Serge Daney afferma al riguardo, e non è certamente un caso,  che “bisogna vedere il film due volte, una volta per la suspense e una volta per apprezzare il suo humour al contrario”).
Un film dunque di molte rare qualità che lo rendono davvero per l’epoca (pensate: eravamo “appena” nel 1956!!!!),  persino “futuribile”, poiché se quel che ho scritto è "veritiero", ed è oggettivamente riscontrabile (la fonte è ancora Venturelli),  significherebbe forse che Lang  intendeva direzionare il suo discorso critico verso il "potere" simulatore e disorientante dei mass media (e una edizione in Dvd scioglierebbe credo, davvero molti dubbi al riguardo permettendo una anlitica esegesi di ogni sequenza).
Buone come al solito le prove degli attori che Fritz Lang sa sempre utilizzare “al meglio” delle loro capacità, soprattutto quella di Dana Andrews che fornisce qui una delle interpretazioni più convincenti di tutta la sua carriera.

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