Regia di Gábor Reisz vedi scheda film
Una spiegazione per tutto, in Una spiegazione per tutto, in realtà non si dà. Non c’è spiegazione nell’incapacità all’apprendimento di Abel, che deve fare la maturità ma non è in grado di fissare in testa anche i concetti più base di storia per poterli restituire in sede di esame orale. La sua resa all’incapacità, che ha di certo la naiveté di uno sguardo giovane e semplicemente immaturo e incerto, ha la schiettezza brutale del finale de La classe di Laurent Cantet, modello europeo imprescindibile di scuola al cinema quando si parla di quest’istituzione come specchio o fulcro delle più grandi contraddizioni sociali e antropologiche del contemporaneo.
Il film di Gabor Reisz, in sezione Orizzonti di Venezia 80, è un coacervo di contraddizioni, sebbene lucidamente disposto e orgogliosamente parziale. Perché l’oggetto del contendere, che è l’esame di maturità di Abel, Reisz ce lo fa vedere, senza generare troppi dubbi: lui fa scena muta, a prescindere dall’aiuto che cercano di dargli gli insegnanti, a prescindere da qualsiasi altro commento dato a margine dai professori. Nonostante ciò il giovane Abel trova l’alibi della posizione politica liberista del suo professore Jakab – contraria a quella di suo padre – per dichiarare che la sua inevitabile bocciatura sia dovuta a un breve inoffensivo commento dello stesso professore. A proposito di una piccola coccarda del tricolore che Abel indossava sulla giacca al momento dell’esame e che era rimasta inavvertitamente attaccata all'indumento fin dagli ultimi festeggiamenti nazionali ungheresi del 15 marzo. La semplice domanda di Jakab “Perché indossi la coccarda?” attiva come con una scintilla la bugia “innocua” di Abel, che può così rispondere alla pressione psicologica dei suoi genitori nei suoi riguardi.
Il padre in particolare, sostenitore di Orban e fortemente convinto della legittimità del portare la bandiera del patriottismo in qualsiasi momento, diventa un semplice esempio di una tendenza ben più trasversale alla società ungherese, che il film ritrae con precisione analitica quando la giovane Erika, aspirante giornalista, scrive un articolo sull’evento (sulla bugia di Abel) e il suo editor-in-chief carica in tono polemico il titolo dell’articolo, spingendo il professore nel più acre tribunale mediatico.
A voler fare i pignoli, il film, che ha un impronta molto più vicina al cinema sociale rumeno di Radu Jude e Cristian Mungiu che non alle esperienze oniriche di Benedek Fliegauf e Laszlo Nemes (il cui Saul fia è citato nel film come titolo mostrato agli studenti del liceo), non prende le stesse scelte estetiche estreme del vicino già citato cinema rumeno e preferisce una mimesi quasi da cinema francese impegnato (Cantet, come già detto), o da cinema iraniano della contraddizione sociale e del dubbio. Con la differenza sostanziale che non ha alcun interesse ad essere imparziale, senza per questo destare indignazione. Explanation for Everything ha il coraggio di stare da una parte, e nonostante ciò di salvare il lato umano di qualsiasi schieramento, permettendo anche al piccolo triangolo amoroso (Abel ama una sua compagna di classe che però è innamorata del professore Jakab) di diventare più un meccanismo che attiva l’etica dei personaggi che non una deviazione melodrammatica che distragga dal succo politico del film.
Basterebbe comunque la scena del litigio fra Jakab e il padre di Abel per riassumere l’equilibrio parziale ma esemplare del film. Quando il padre di Abel dichiara che le persone sono divise fra “patrioti” e “traditori”, e il professore gli risponde che ha dimenticato anche una terza fazione, le teste di cazzo.
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