Regia di Zar Amir Ebrahimi, Guy Nattiv vedi scheda film
Presentato all'80ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia del 2023 vincendo il Premio Brian, Tatami è un film che ha una particolare rilevanza non soltanto cinematografica ma anche per l’inedita e audace collaborazione tra un regista israeliano, Guy Nattiv, Premio Oscar nel 2019 per il cortometraggio Skin, e un’attrice iraniana per la prima volta anche dietro la macchina da presa, Zar Amir Ebrahimi, vincitrice del Premio per la Miglior Interpretazione a Cannes 2022 per Holy Spider, e arrivato in Italia (siamo stati il primo paese interessato alla sua distribuzione) con un’uscita evento l’8 Marzo, non a caso nella giornata delle donne, e poi in programmazione normale a partire dal 4 Aprile.
Coproduzione tra Stati Uniti e Georgia, Tatami è un film scarno, essenziale e potente che sfrutta gli strumenti di un film sportivo per raccontare in realtà un dramma ad alto contenuto politico, con la judoka iraniana Leila Housseini (l’attrice Arienne Mandi, americana di origini cilene e iraniane, che regala al personaggio sia fisicità che sensibilità) e la sua allenatrice Maryam (la stessa regista Ebrahimi) che durante una competizione internazionale a Tbilisi ricevono l’ordine da parte della Repubblica Islamica dell’Iran di fingere un infortunio (o di perdere volontariamente una gara) per non rischiare una possibile sconfitta in un’eventuale scontro con la campionessa israeliana, stato nemico dell’Iran, che avrebbe portato vergogna e disonore a loro e a tutta la nazione, arrivando anche a minacciare ritorsioni a loro e agli stessi familiari se non accettano di sottostare al diktat.
Realizzato in un bianco e nero definito quanto di contrasto che ne acuisce ulteriormente l’intensità e la dimensione claustrofobica, tutto il film è costruito all’interno dell’edificio e della palestra dove si svolgono i campionati mondiali di judo femminile, con anche la regia e il montaggio di Yuval Orr a evocare un senso continuo di oppressione sia fisico che emotivo, è recitato sia in inglese che in farsi in modo da farne anche un resoconto esemplare, trascendendone le specifiche narrative non solo quindi come un fatto di cronaca (la storia è di finzione ma si ispira alla vicenda vera di un’atleta però maschile) ma anche come esperienza cinematografica soprattutto sensoriale, cruda e sincera , e dai toni cupi e inquietanti.
E non vediamo praticamente mai il pubblico in quanto, allegoricamente, il pubblico che sta assistendo all’evento e alla storia siamo proprio noi, quello al cinema.
Lo sport diventa quindi lo strumento (o anche metafora) per esprimere la propria critica contro un regime dittatoriale che distrugge i sogni e le speranza dei suoi cittadini, e probabilmente non è un caso che, insieme al fatto che le protagoniste siano soprattutto donne, lo sport scelto come protagonista sia proprio il judo, disciplina che in cima ai propri valori mette sempre il rispetto per l’avversario.
O per il nemico.
Così come non è un caso che tutti gli attori di nazionalità iraniana presenti nel film vivono ovviamente all’estero in esilio, dalla stessa regista Ebrahimi a Mehdi Bajestani o Sina Parvaneh, mentre il cast è completato anche da Jaime Ray Newman (anche produttrice), Nadine Marshall, Lir Katz e Valeriu Andriuta.
Spesso avvincente e a tratti didascalico, il film è soprattutto l’allegoria di una presa di posizione (e di coscienza) netta su cui gli equilibri diplomatici spesso incapaci (inconsapevolmente?) di affrontare, o almeno di comprendere, alcune delle dinamiche più problematiche.
VOTO: 7
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