Regia di Harmony Korine vedi scheda film
Con buona pace di The Beach Bum, leggera retrocessione più spiccatamente indie dell’ultima carriera di Harmony Korine, questo è il film che semplicemente “doveva succedere” dopo Spring Breakers, punto di non ritorno di questo incontro metafisico fra il lirico e l’osceno, fra l’alta meditazione e la barbarie più lurida, che è il cinema del regista. AGGRO DR1FT è interamente girato con camera termica, e racconta la storia del miglior assassino del mondo che deve scontrarsi con niente poco di meno che il figlio del demonio.
Il campo da gioco è tutto ben oltre i corpi e gli ambienti che vediamo nel film: è una lotta oltreumana fra il Bene e il Male, una preghiera che manipola immagini note (e iconiche) trasformandole in parole e preghiere, in un’altra esibizione di impossibile spiritualità come sono sempre tutti i film di Harmony Korine. Non il bello in mezzo al disgusto, ma il sublime “dentro” il disgusto. Per questo il film è un concerto di culi twerkanti, di maschere deformanti e di liquidi organici che sprizzano in ogni dove - e da parecchie cavità di diverse natura. Korine vuole portare le cose ad un confine impossibile fra la riconoscibilità e l’irriconoscibilità, fra la possibilità di appellarsi a un paratesto (autoriale, concettuale, iconografico) e quella di costringere a sottostare alla pura energia della presenza delle cose. Ed è uno dei pochi realmente in gioco in questo senso nel cinema contemporaneo: se torna qui l’estetica MTV, fanno capolino anche Giger, l’intelligenza artificiale e i videogame, in dialettica davvero liminale con la videoarte e l’installazione. Il pot-pourri di Korine non è mai però post-moderno, anzi, Korine crea dei personaggi che credono a delle cose e a delle narrazioni. A dei soldi, all’amore, a dei culi, ma comunque a delle cose che fanno la loro fede e la compongono. Sembra ribadirci che il Cinema non serve a dirci in cosa credere, ma a farci capire come l’essere umano possa credere, e cosa sia la fede, il sogno, il vedere l’invisibile. L’esperienza più isterica e solleticante di Venezia 80.
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