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The Caine Mutiny Court-Martial

Regia di William Friedkin vedi scheda film

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La recensione su The Caine Mutiny Court-Martial

di EightAndHalf
7 stelle

Il grande classico dell’Ammutinamento del Caine, dramma processuale portato già in scena da Dmytryk e Altman, torna sullo schermo con l’ultima opera (postuma) di William Friedkin, crociato massimo della New Hollywood, qui tornato a fare un film “paratelevisivo” come fu per 12 Angry Men nel 1997. 

Fatto salvo che l’aggettivo televisivo andrebbe ritrattato e riformulato, visto che l’ottimo 12 Angry Men era televisivo e che quindi si tratta di ricontestualizzare l’uso di un aggettivo spesso mal adoperato in critica cinematografica, la vera questione è perché The Caine Mutiny Court-Martial possa essere percepito come televisivo dagli spettatori contemporanei.

La realtà è che quello che appare televisivo è in realtà un approccio algido e quasi ascetico a una materia narrata fatta unicamente di campi/controcampi e di panoramiche - si tratta di un’ora e quaranta dialogata a gran velocità - gestita da Friedkin con un’apparente ristrettezza di mezzi che fa apparire cheap l'intera confezione. La verità però sta altrove, e cioè nella sinfonia dell’editing del film, che fa montare la tensione con procedere chirurgico e inarrestabile, in una successione raffinatissima di battute e contrappunti. E se il ritmo non si ferma è anche per come il film si avvita - già a partire dalle precedenti versioni, qui con un approccio ancora più scheletrico e senza filtri - sul tema della malattia mentale, dell’apparenza e della “mezza menzogna”. Una partita a cinque (di volta in volta pubblico ministero, avvocato difensore, imputato, giudice e teste) che si reitera come se fosse letta direttamente dai documenti del processo, come in un’inchiesta che recuperi filologicamente tutti i passaggi dell’evento. Ogni sfumatura, ogni sospiro, e soprattutto ogni primo piano negato, lasciato fuoricampo, che brucia della tensione guidata dalle aspettative, è restituito con un’energia a stento trattenuta dalle impellenze formali e militari.

Un pezzo di cinema tout court invero magistrale, che dentro tiene i fuochi d’artificio ma che fuori esplode nella sua ritualità e nella sua natura liturgica. Una vera e propria messa, che col silenzio assoluto (le musiche sono contingentate ai titoli di testa e ai titoli di coda) esalta ancor di più la precisione delle inquadrature, la coreografia dei corpi, tutte le infinite cornici sulla cangiante prossemica dei personaggi. Tanto che la cosa che viene più in mente, ancor più che i vecchi adattamenti del Caine, è il falso teatro di Rope di Hitchcock, per il modo in cui il film di Friedkin converge sul triangolo caratteriale dell’uomo saggio e dei due giovani sprezzanti e per il volto di Jake Lacy nella parte dell’ufficiale Maryk, vera copia carbone del mitico cattivissimo John Dall di Nodo alla gola.

 

 

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