Regia di Quentin Dupieux vedi scheda film
Se Dupieux ha scelto Dalì come soggetto del suo nuovo film presentato fuori concorso a Venezia 80 è perché il primo appellativo che si può dare senza troppi approfondimenti al suo cinema è quello di “cinema surrealista”. Sennonché in Dupieux non si tratta mai del surrealismo che attinge all’inconscio, all’intuizione, all’istinto creativo, ma di un surrealismo cinematografico della pura freddura, del nonsense dell’improvviso cambio di inquadratura, della gag ripetuta, della battuta forzata e ridondante. Che punta tutto all’esaurimento e alla silenziosa isteria.
Chiaramente il film non è un biopic su Dalì, ma a ben pensarci non ha a che spartire con Dalì né il concetto di surrealtà per quanto detto sopra né alcun aspetto figurativo: ormai Dupieux, pur di realizzare due film all’anno, affida i suoi prodotti a una crosta di fotografia smarmellata e desaturata che non dà tono e non dà accento ad alcunché. È solo l’accostamento delle scene a interessarlo, incoraggiando un’idea di cinema e di comicità a segmenti e compartimenti stagni, disinteressata all’orchestrazione di gag più articolate, impaurita - per esempio - dal pianosequenza; un’ilarità del facile contrasto e dello scarto esplicitamente sgrammaticato. I labirinti metalinguistici (irraccontabili, ma faciloni: la più affascinante delle contraddizioni di Dupieux) di Dalì perdono spessore (e ironia) tanto più si ripetono uguali, e alla fine sembra di trovarsi di fronte a una persona poco brillante che ripete una barzelletta otto volte e ci si ritrova imbarazzati a dover ridere per non offendere nessuno. Le daim e Mandibules risalgono a pochi anni fa, ma sembrano a questo punto meteore infrequenti in mezzo a una cascata di buchi nell’acqua.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta