Regia di Ryûsuke Hamaguchi vedi scheda film
Venezia 80. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Lo scorso luglio destò sorpresa l'annuncio della presenza in concorso di Hamaguchi Ryûsuke. Nessun autorevole magazine aveva predetto l'arrivo al Lido del regista di "Drive my Car" semmai, come da più parti sostenuto, non vi erano notizie che lasciassero immaginare l'esistenza di un nuovo progetto del regista in avanzato stato di produzione. "Evil does not exist" è approdato, perciò, sulle spiagge veneziane tra lo stupore generale con il fardello di dover confermare il successo di "Drive my Car", film capace di conquistare parecchi premi nel corso del 2022, Oscar compreso. C'era ovviamente molta curiosità e il desiderio di comprendere se il nuovo lavoro dell'insigne regista fosse in grado di confermare gli standard già esibiti, se non proprio la popolarità, del precedente lavoro. Per quanto mi riguarda non ho trovato differenze sostanziali tra i due film salvo il fatto che "Evil does not exist" non ha avuto bisogno dei tempi di "Drive my Car" che già si era sforzato di ridurre a tre ore ciò che non era stato possibile raccontare in meno di cinque in "Happy Hour" del 2015.
Hamaguchi ha lavorato di sintesi come se non desiderasse compiacersi del lavoro svolto nella brillante e confortevole Saab rossa che collegava due mondi distinti, quello del regista teatrale Kafuku e quello della sua autista Misaki. Ci sono ancora due entità lontane da congiungere in "Evil does not exist": la città, emblema del capitalismo economico più invasivo, e la periferia, simbolo di un ambiente incontaminato a rischio di estinzione. Ancora una volta è un automobile che funge da connettore tra questi mondi agli antipodi. Più precisamente l'auto grigia e poco seducente di Takahashi che viene spedito assieme alla collega Mayuzumi nella prefettura di Nagano per convincere una comunità tentennante a non porsi troppe domande al cospetto di un progetto di "glamping" che potrebbe arricchire l'indotto quanto gli investitori rampanti della capitale.
Dentro l'abitacolo i due colleghi, cinerei e frustrati, discutono imbarazzati delle possibili implicazioni di un progetto che sentono di odiare ma che devono sostenere per ovvie ragioni di lavoro. La sequenza girata a bordo dell'auto permette al regista di mettere a nudo i due personaggi, la stanchezza che li attanaglia, le rispettive solitudini, i rimpianti ed, infine, i desideri che l'irreprensibile disciplina del lavoro relega ai margini.
Tanto verboso è il movimento della macchina verso la periferia, tanto silenzioso e l'incedere lento dei passi di Takumi nel bosco. Sulla natura che si riapre al calore del sole primaverile Hamaguchi canta la sua lode alla bellezza.
La raccolta delle erbe, il trasporto di taniche d'acqua cristallina verso valle, il taglio della legna sono gesti dal sapore antico che costituiscono il linguaggio del solitario Takumi.
L'uomo è un tuttofare che si arrangia con i lavori offerti dal bosco e, per la sua dedizione all'ambiente, è l'uomo da portare dalla propria parte, il nemico da combattere, il simbolo di una natura benedetta ma ostile verso chi si ponga davanti ad essa con supponenza ed arroganza.
Hamaguchi incanta distribuendo lentezza e squarci di bellezza cristallina. Le acque dei ruscelli suonano la musica della foresta insieme al rumore di un'ascia che conficca la propria lama nel ceppo.
Hamaguchi vince la sfida della presentazione del progetto. Una sequenza, a mio avviso molto significativa, in cui la compostezza del popolo giapponese stride con la bagarre che una eguale serata avrebbe causato alle nostre latitudini. Ad Hamaguchi l'incontro serve, naturalmente, a svelare i rapporti di forza che pongono il territorio agreste ai piedi della città.
Il ritorno di Takahashi e Mayazumi, dopo il primo infruttuoso contatto, sancisce il tracollo della situazione e questo avviene nonostante Takahashi faccia le prove per un inatteso cambio di rotta.
A questo punto il film restituisce l'impressione di camminare lungo sentieri sdrucciolevoli. La scomparsa della piccola Hana sembra il pretesto esile per superare lo stallo di un incontro/scontro in cui tradizione e modernità non sanno che ruolo giocare.
Il finale, a mio avviso, è sin troppo crudele. Takumi cessa di essere uomo ed assume i panni di una natura inflessibile. Lotta, ferocemente, contro il meccanismo che ne vuole la soppressione (Takahashi e ciò che rappresenta) e allo stesso tempo rimane impassibile di fronte al conflitto tra bambina e animale feroce. La natura è imparziale. Ogni essere vivente, che sia preda o predatore, ha le stesse possibilità di vincere o perdere, di conservare la propria vita o soccombere per garantire equilibrio tra le specie. Il padre rimane immobile mentre la bimba mette in atto, si spera, gli insegnamenti percepiti che le consentiranno, forse, di sopravvivere all'attacco.
Ma la lezione, per quanto la terra si malandata e bisognosa di difendersi dalla mano dell'uomo che ne viola sin troppo spesso gli equilibri, mi giunge troppo estrema laddove l'istinto paterno, abdicando di fronte al contrasto tra bimba/natura, scompare davanti ad una giustificazione dei mezzi che nulla ha di umano.
Il messaggio finale è criptico e imperscrutabile. Visto come un chiaro segnale della necessità di combattere una guerra sporca e senza scrupoli mi ha lasciato piuttosto perplesso incrinando parzialmente il giudizio più che positivo che il film aveva portato co sé fino al concitato finale.
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