Regia di Maurice Pialat vedi scheda film
Suzanne (Sandrine Bonnaire) è una ragazza libera e anticonvenzionale. Passa da un uomo all'altro con eccessiva disinvoltura, cerca di prendere tutto con estrema leggerezza e di non lasciarsi irretire dalle turbolenze domestiche. Il padre (Maurice Pialat) ha una piccola sartoria a gestione. Un bel giorno se ne va via di casa senza dare spiegazioni. La madre (EvelyneKer) fa spesso uso di psicofarmaci e sembra preoccuparsi solo di giudicare la figlia. Il fratello (Dominique Besnehard) si ritrova ad essere capofamiglia e sembra provarci gusto a impartire ordini con rude autorevolezza. Fugge sempre Suzanne, fino a pensare di andarsene molto lontano con il fidanzato di turno.
Maurice Pialat si è dimostrato essere un regista tanto bravo quanto discreto, di quelli che sembrano preferire rimanere debitamente a distanza dalle luci della ribalta. Prima di “Sotto il cielo di Satana”, il film premiato a Cannes che lo fece risaltare nell'olimpo del cinema internazionale, Pialat giro “Ai nostri amori”, un film che con delicata accortezza di stile tratteggia i connotati speculativi di quel passaggio dei ragazzi all'età adulta, quando ogni sussulto emotivo non può non essere messo in relazione con quel bagaglio di esperienze con cui ogni singolo adolescente fa pratica nel contesto in cui vive.
Infatti, Susanne (una grande Sandrine Bonneire qui al suo esordio assoluto) incarna il carattere di una ragazza “liquida” che cerca in uomini sempre diversi quella vicinanza emotiva che non riesce a ricevere in famiglia. La facilità con cui Suzanne va con i suoi coetanei, non è tanto il frutto di un atteggiamento disinteressato nei confronti del sesso, quando la risultante di un deficit di tenerezza che il sesso aiuta ad appagare con il suo carico di calore disimpegnato. Si emancipa dalla strada obbligata delle convenzioni sociali con l'inconsapevolezza di chi tratta ancora come un gioco il rapporto con gli uomini e ancora non sa quando il suo comportarsi da donna libera sia socialmente arricchente. E sempre a fuggite Suzanne, dalle relazioni che iniziano a essere troppo strette, dai sentimenti che cominciano a portare il conto, dalle amicizie che tendono a farsi moraliste. Ma fugge soprattutto dalla famiglia che ogni volta gli ricorda perché stagli a debita distanza è il modo migliore per non disamorarsi del tutto della vita. Il padre lascia moglie e figli senza alcun motivo apparente. La madre sembra voler sfogare sui figli le sue aspettative inappagate. Il fratello continua l’attività di famiglia e si mette a recitare il ruolo del rude padrone di casa. Suzanne non li giudica negativamente, ci vive insieme e si sforza in ogni modo di non creare dissidi. Si sente solo istintivamente portata a non conformarsi a quello che i suoi familiari si aspettano da lei, a fuggire dalle sue inquietudini giovanili assecondando le fisiologiche pulsioni del corpo.
La regia di Maurice Pialat si insinua dentro le traiettorie ondivaghe di Suzanne senza apparire, né impropriamente didascalica né gratuitamente moralista, mostrandosi capace di conferire al non visto e al non detto un'appropriata sostanza narrativa. Lavora sui dettagli emotivi e i debiti sentimentali Pialat, riuscendo a conferire molta credibilità ad uno spaccato emblematico delle fisiologiche inquietudini giovanili. Nel finale del film, il padre dice a Suzanne che “tu vuoi solo essere amata, ma non sei ancora capace di amare”. Non c'è rimprovero in queste parole, solo tenera comprensione per questa figlia che cerca in un altrove molto lontano quell'equilibrio sentimentale da donare alla sua ancora giovane esistenza. Ottimo film. da riscoprire.
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