Regia di Mauro Bolognini vedi scheda film
Un fine dramma incentrato sul traumatico passaggio all’età adulta dove il tema edipico (l’incesto) si intreccia con quello dello scontro fra mondi e realtà divergenti fra loro: da una parte un ricco ingenuo adolescente; dall’altra, un gruppo di ragazzotti di vita scaltri e smaliziati- Tematiche scabrose ma la delicatezza di tocco è assicurata.
(…)La lampada era accesa e illuminava di schiena la madre che in camicia, un ginocchio sul letto, si apprestava a coricarsi. “Mamma”, disse subito con voce forte e quasi violenta.
La madre si voltò, gli venne accanto. “Che c’è?” domandò, “che hai caro?” Anche la sua camicia era trasparente, come la veste della donna della villa, e il corpo vi si disegnava come quell’altro corpo, in linee ed ombre imprecisate.
“Vorrei partire domani,” disse Agostino sempre con quella sua voce forte ed esagerata, cercando di guardare non il corpo ma il viso della madre. La madre, sorpresa, sedette sul letto e lo guardò. “Perché… che hai? non ti trovi bene qui?” “vorrei partire domani, “ egli ripeté. “Vediamo,” disse la madre passandogli discretamente una mano sulla fronte, quasi avesse temuto che fosse febbricitante, “che hai?... non ti senti bene?... perché vuoi partire?”
Agostino non disse nulla. La camicia della madre ricordava proprio quella della donna della villa, stessa trasparenza, stesso candore della carne indolente e offerta; soltanto che la camicia era spiegazzata e pareva rendere ancora più intima e furtiva quella vista. Così, pensò Agostino, non soltanto l’immagine della donna della villa non si frapponeva come uno schermo tra lui e la madre, come aveva sperato, ma confermava in qualche modo la femminilità di quest’ultima. “Perché vuoi partire?” ella gli domandò ancora, “non stai bene con me?”
“Tu mi tratti sempre come un bambino”, disse ad un tratto Agostino, non sapeva neppur lui perché. La madre rise e gli accarezzò una guancia. “Ebbene, d’ora in poi ti tratterò come un uomo… va bene così? e ora dormi… è molto tardi.” Ella si chinò e lo baciò. Spense il lume, Agostino la sentì coricarsi nel letto.
Come un uomo, non poté fare a meno di pensare prima di addormentarsi. Ma non era un uomo; e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse. (Alberto Moravia, Agostino, Bompiani, 1945)
Da un romanzo breve di Alberto Moravia scritto nel 1942 ma uscito nel 1944 per i caratteri della Documento editore in edizione limitata di solo 500 copie (e rieditato poi con maggior eco e fortuna nel 1945 da Bompiani) Bolognini ha tratto un film intenso e coraggioso (sua anche la sceneggiatura scritta insieme a Goffredo Parise) che fu però un flop colossale ed ebbe anche molti guai con la censura (prima con il divieto ai minori di 18 anni, e poi addirittura con il ritiro forzato dalle sale a seguito di una denuncia, dopo una sola settimana di programmazione[1]).
Tutto questo immotivato can can per un film che - davvero – non ha niente di morboso, fu sicuramente la causa principale che lo fece finire senza alcuna possibilità di appello, nel tritacarne della solita critica puritana e bacchettona in odor di sudditanza alla DC che era la forza maggioritaria del paese e dettava inesorabilmente le sue regole castranti e moraliste intrise di puritanesimo di facciata tipico di chi predica bene ma poi razzola molto male.
A suo sfavore dunque giocarono proprio le tematiche trattate (che sono il suo valore aggiunto) considerate veri e propri insormontabili tabù davvero indigeribili e come tali, doverosamente censurabili.
Il film è del 1962 e indubbiamente i tempi erano tutt’altro che maturi per parlare di argomenti così scabrosi (pur se qui trattati - come del resto nel racconto a cui si riferisce - con particolare delicatezza e forte senso del pudore).
L’atteggiamento generale (anche da parte degli spettatori che infatti disertarono le sale) fu quello di un esacerbato bigottismo ipocrita e perbenista che non riteneva né accettabile né lecito nemmeno un figlio nato fuori dal matrimonio, figuriamoci qualcosa che affrontava - sia pure in punta di penna - il problema dell’incesto oltre a quello altrettanto spiazzante dell’omosessualità. Il permissivo ‘68 che cambierà un poco le cose, era infatti ancora di là da venire (arriverà soltanto 6 anni dopo che per quei tempi rappresentano un periodo lunghissimo di transizione).
Sorprende semmai il fatto che anche alcuni importanti “recensori” cosiddetti “illuminati” (e soprattutto tutt’altro che schierati con l’eccesso di conformismo imperante) che avrebbero dovuto apprezzarne almeno il coraggio, nell’immediato gli si scagliarono invece contro addirittura con una inusuale veemenza distruttiva: Di Giammatteo per esempio, lo definì su Bianco e nero “un’opera infarcita di un insopportabile sensazionalismo antiquariale intriso di un pernicioso formalismo postdannunziano”, mentre Tullio Kezich (non nuovo a prendere cantonate di questa portata) si scandalizzò (sì, proprio così) per “un senso di sgradevolezza quasi insopportabile” reso ancor più palese dalla “brutale evidenza delle immagini”. Altri invece furono solo un tantino più gentili ostentando comunque una generica irritazione per la “sconveniente ambiguità di certi passaggi e situazioni”, tanto che lo stesso Moravia (allora critico ufficiale dell’Espresso e autore del racconto che alla sua uscita era stato accolto molto bene e non aveva certo suscitato analoghe pruderie[2]) si sentì in dovere, sulle colonne della sua rubrica settimanale di recensioni cinematografiche, di prendere una posizione (invero molto equilibrata) che, senza sbilanciarsi troppo (era pur sempre parte in causa e non voleva correre il rischio di sembrare troppo partigiano) riuscì ugualmente a dire la sua in aperta contrapposizione a tutte quelle critiche velenose. Pur scrivendo in punta di fioretto insomma, centrò con successo l’obbiettivo che si era prefisso che era quello di nobilitare e ridare la dignità negata al film esprimendo un giudizio sostanzialmente positivo in una specie di appassionata e doverosa difesa d’ufficio (riporto in calce ciò che pubblicò al riguardo sul numero della rivista uscito in edicola il 2 dicembre del 1962)[3] tanto più apprezzabile se si considera che quando Bolognini e Parise si interessarono al progetto, pur esistendo già una sceneggiatura (rimasta inedita) scritta dallo stesso Moravia insieme a Sandro de Feo, decisero di non tenerne conto e di procedere autonomamente per poter esprimere meglio il loro punto di vista.
Il tempo trascorso ha rivalutato (ma solo un poco) questa tutto sommato pudica pellicola (vedere per credere) che a mio avviso rientra fra i migliori risultati raggiunti dal regista e si conferma oggi più di eri, decisamente superiore rispetto a molte altre sue opere che non solo hanno avuto un esito migliore al botteghino, ma anche un più ampio e positivo riconoscimento critico.
Come nel romanzo, la sostanza del film – uno dei e più rischiosi che Bolognini abbia fatto nella sua lunga carriera – è cruda e violenta, ma la realistica sgradevolezza della materia, non offusca minimamente la finezza delle sfumature e la sottile ambiguità delle allusioni che sono le caratteristiche più evidenti che accompagnano, fra molte luci e qualche ombra come quella di un eccesso di calligrafismo gran parte della corposa produzione di un regista che ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la letteratura.[4]
Sintetizzando, Agostino è dunque il racconto di un’iniziazione sessuale che contrappone un ragazzo di 13 anni (10 nel film) che è ancora un bambino (Agostino appunto) a sua madre (una giovane e piacente donna rimasta vedova, ma ancora fiorente e desiderosa di vivere) a cui è morbosamente attaccato e per la quale soffre di un forte sentimento di gelosia nel vederla così sensibile alle lusinghe di un uomo più giovane di lei che le fa una corte serrata.
Questo lo porterà a prenderne le distanze (per sviare il pensiero disturbante o forse anche solo per vendicarsi) finendo così per intrufolarsi in una banda di ragazzi del posto, rissosi e rozzi, capeggiati da un maturo ex bagnino omosessuale e pederasta[5], proprietario di una grossa barca con la quale scorrazza il gruppo nelle acque dell’Adriatico. Quest’uomo, primitivo e prepotente ( nel romanzo descritto come fisicamente ributtante ma trasformato qui in un aitante pescatore che sembra incarnare un’erotica e protettiva proiezione della figura paterna della quale il ragazzo avverte un fortissimo bisogno) , prende Agostino in forte simpatia (che implica anche il versante dell’attrazione fisica e desiderio carnale) suscitando così a sua volta la gelosia di uno dei ragazzi del gruppo che teme che questa fresca novità possa fargli perdere le attenzioni e i favori che l’ex bagnino gli aveva riservato fino a quel momento (un’innocenza più presunta che effettiva che i ragazzi della mia generazione conoscono benissimo e che qui viene intelligentemente sottesa).
Va detto subito che Bolognini rappresenta con sensibilità e mirabile finezza psicologica questo dramma incentrato sul doloroso, traumatico passaggio all’età adulta dove il tema edipico e psicanalitico si intreccia con quello dello scontro fra mondi e realtà totalmente divergenti fra loro: da una parte il ricco adolescente azzimato e ingenuo; dall’altra gli scaltri e smaliziati ragazzi figli di un proletariato violento ed emarginato. A mio modesto avviso , il regista se cava benissimo proprio nel descrivere questo delicato aspetto della storia. Riesce infatti a mantenere il giusto passo e a non strafare proprio nella descrizione (che fa con mano particolarmente delicata) della spietatezza di fondo mista a sopraffazione, che segna la scoperta del sesso e delle sue pulsioni qui ambiguamente declinata anche nei rapporti che si instaurano fra ragazzi e persone dello stesso sesso e genere
E’ dunque durante questa vacanza al mare sulla spiaggia del Lido di Venezia che i rapporti di purezza sentimentale intercorrenti fra il figlio e la madre si guastano, si corrompono e creano nel ragazzo una profonda inquietudine. Per Agostino arriverà così una dilacerante crisi, una lacerazione che porterà come conseguenza, uno sbandamento profondo che sfiorerà l’incesto ma che gli consentirà di raggiungere poi l’equilibrio di una maturità più consapevole dalla quale potrà alla fine ripartire dallo stallo dovuto ai turbamenti anche ormonali dell’adolescenza che lo hanno reso così confuso e smarrito, sospeso fra due pulsioni entrambe proibite e condannate. Riuscirà cosi (almeno lo immaginiamo, perché il film si ferma prima)a ricomporre con molta sofferenza il suo mondo e le sue certezze che erano finite completamente in pezzi e che potranno permettergli di ritrovare un equilibro e una nuova prospettiva di vita che, nella maturità, diventerà inevitabilmente più complessa e sfaccettata ma soprattutto più chiara e percorribile anche per quel che riguarda i suoi indirizzi sessuali.
La connotazione erotica dell’iniziazione carnale che lo ha travolto (parlo del coté edipico della tentazione), è descritta da regista attraverso un felicissimo utilizzo dei dettagli (l’espressione di un volto, il mutare dello sguardo) sui quali si concentra con metodica attenzione. Di particolare interesse il ricorso allo zoom che qui diventa il mezzo ideale per farci percepire il profondo turbamento della carne e l’erotismo sotteso che trasmette.
L’abbraccio materno - sembra suggerirci il regista- non può essere allora che compulsivo, frustrante, allusivamente mortale (Umberto Cantone).
Quando invece passa a perlustrare l’intreccio omo-pederastico della storia, pur esplorato con lo stesso rigore e illusivo vigore, il registro si fa volutamente più cupo e più compromissivo affinché possa essere messa in maggiore evidenza e risalto, la turbolenza non solo di carattere psicologico che spinge Agostino verso la scoperta di un’esperienze forse ancor più proibita e disturbante. Il tutto, raccontato con una descrittività conoscitiva densa di particolari attraente e pericolosa al tempo stesso, rappresentata come se fosse il frutto di un inesorabile nesso di casualità al quale è quasi impossibile sottrarsi. Lo straziante gioco dell’ “età breve” sta tutto in questo agitarsi dentro la gabbia dell’indistinto e dell’inespresso, una mutazione dolorosa che annuncia la tragedia stessa del vivere (scrive ancora Cantone).
(…)Udì la madre entrare nella stanza accanto, e poi camminare con i tacchi sonori sulle mattonelle del pavimento. Ella andava e veniva, apriva e chiudeva cassetti, smuoveva seggiole, toccava oggetti. “Ora si corica” egli pensò ad un tratto riscuotendosi dal torpore che l’aveva piano piano investito, “e allora non potrò più avvertirla che voglio andare sulla spiaggia”. Spaventato, si levò dal letto e uscì dalla stanza. La sua camera dava sopra il ballatoio, di fronte alla scala, la porta della madre era attigua alla sua. Egli si avvicinò, ma trovandola socchiusa, invece di bussare come sempre faceva, forse guidato inconsapevolmente da quel suo nuovo desiderio di sorprendere l’intimità materna, sospinse dolcemente il battente aprendolo a metà. La camera della madre, molto più grande della sua, aveva il letto accanto alla porta, e proprio di fronte alla porta, un cassettone sormontato da un largo specchio. La prima cosa che vide fu la madre ritta in piedi davanti a questo cassettone.
Ella non era nuda come aveva quasi presentito affacciandosi, bensì in parte spogliata e in atto di togliersi davanti allo specchio la collana egli orecchini. (…) Tutto il corpo grande e splendido sembrava, sotto gli occhi trasognati di Agostino, vacillare e palpitare nella penombra della camera (..) Il primo impulso di Agostino, a tale vista, fu di ritirarsi in fretta; ma subito questo nuovo pensiero: “E’ una donna” lo fermò, le dita aggrappate alla maniglia, gli occhi spalancati. Egli sentiva tutto il suo antico animo filiale ribellarsi a quella immobilità e tirarlo indietro, ma quello nuovo, ancora timido eppure già forte, lo costringeva a fissare spietatamente gli occhi riluttanti là dove il giorno prima non avrebbe osato levarli. Così, in questo combattimento tra la ripugnanza e l’attrattiva, tra la sorpresa e il compiacimento, più fermi e più nitidi gli apparvero i particolari del quadro che contemplava, il gesto delle gambe, l’indolenza della schiena, il profilo delle ascelle, e gli sembrarono in tutto rispondenti a quel nuovo sentimento che non aveva bisogno che di queste conferme per signoreggiare appieno la sua fantasia. (…) I suoi occhi da attoniti si facevano curiosi, pieni di un’attenzione che gli pareva quasi scientifica e che in realtà doveva la sua falsa obbiettività alla crudeltà del sentimento che la guidava. Intanto il sangue gli saliva rombando alla testa, si ripeteva: ”E’ una donna… nient’altro che una donna,” e gli parevano, queste parole, altrettante sferzate sprezzanti e ingiuriose su quel dorso e quelle gambe. (Alberto Moravia, Agostino, Bompiani, 1945).
Girato in Totalscope (davvero splendida la fotografia chiaroscurata del grande Aldo Tonti che ci fa perdonare anche qualche caduta un tantino estetizzante: le tentazioni calligrafiche che inducono il regista a far indugiare a tratti l’operatore sui canali, i campielli e i lidi di una Venezia forse un po’ tropo crepuscolare che potevano essere evitate insieme a qualche sottolineatura letteraria di troppo (piccoli nei che non inficiano però il risultato complessivo).
Al suo attivo infatti c’è anche l’eccellente montaggio ellittico di un Nino Baragli davvero in stato di grazia da ricordare (e celebrare)soprattutto per la sequenza finale che definirei da antologia.
Tutto questo, insieme alle intelligenti (e necessarie) libertà che il film si concede rispetto al racconto di Moravia come quando Bolognini sceglie di rendere più esplicita la rabbiosa inquietudine del ragazzo che lo spinge verso quel desiderio di trasgressività sottesa. Per altri versi invece ne rimane sostanzialmente fedele soprattutto quando tratta il versante omoerotico nel quale il regista rispetto al racconto si concede solo alcuni piccoli, ma espliciti ammiccamenti , che lo aiutano a concentrarsi meglio sul problema ed esplorare c osì con la necessaria concretezza, l’ingente mole di sentimenti contrastanti che rischiano di travolgere il ragazzo anche senza averli vissuti davvero fino in fondo in questo suo poco felice e problematico periodo di apprendistato sentimentale. Ancora secondo Cantone è proprio in questo crogiuolo melmoso e pieno di contraddizioni che si sviluppa e prende corpo la condizione caotica su cui si fonda ogni esperienza erotica, nessuna esclusa.
Buone anche le prove degli attori (in primis quelle di Paolo Colombo e della radiosa, solare Ingrid Thulin sensuale e maternale al tempo stesso). Discrete anche quelle di tutti gli altri interpreti a partire dalle azzeccate facce proletarie dei ragazzi della banda e funzionale pure John Saxson che possiede il giusto physique du role per il personaggio che è stato chiamato a interpretare.
Un piccolo neo lo trovo invece nella colonna sonora di Carlo Rusatichelli spesso eccessivamente invasiva con le sue dotte escursioni (un po’ kitsch) nella Gymnopedie No.1 di Erik Satie.
[1] Tra il 1947 e il 1962, vennero tagliati oltre 1500 film, per un totale di cinquanta chilometri di pellicola. Oltre ai numerosi tagli che vennero imposti al finale de Il cielo può attendere di Lubitsch, venne eliminata totalmente anche la scena di un libertino che alla sua morte preferisce scendere all’inferno con una bella donna piuttosto che andare in paradiso. Saranno altresì bloccati perché ritenuti troppo arditi (insieme a molti altri), anche La ronde di Max Ophuls, Casco d’oro di Becker e Il diavolo in corpo di Autant-Lara. Ai film di Bunuel venne inibita la distribuzione mentre a Rififi furono imposti 9 tagli per complessivi 250 metri di pellicola. Anche al cinema di Bergman furono imposte molte mutilazioni:18 metri a Il settimo sigillo (la scena della processione); 219 metri e 7 tagli a L’occhio del diavolo; i 3 tagli per complessivi 54 metri di pellicola a Alle soglie della vita (e sappiamo quali altre incomprensibili modificazioni furono apportate con il doppiaggio). Mica è finita qui però: in Spartacus di Kubrik la censura fece eliminare 27 metri di pellicola e addirittura 29 ne furono fatti togliere da Il sepolcro indiano di Fritz Lang. Verranno duramente colpiti anche molti film italiani: 2tagli per complessivi 16 metri di pellicola a Boccaccio ’70 mentre I dolci inganni di Lattuada (come del resto accadde anche ad Agostino di Bolognini) venne sequestrato e processato subendo una condanna nel primo grado di giudizio, tanto che per poter arrivare ad essere distribuito in sala , si dovettero accettare 8 tagli per complessivi 350 metri di pellicola. Anche Il gobbo di Lizzani subì 9 tagli per complessivi 120 metri di pellicola. A Una giornata balorda (ancora Bolognini) verranno richiesti tagli per ben 33 metri di pellicola. Il film però uscì in versione integrale e verrà di conseguenza sequestrato con denuncia penale sia per il regista che per Pasolini , autore della sceneggiatura, e addirittura pera Moravia, l’autore del libro da cui il film era stato tratto. Altri guai per Bolognini anche per il suo I giovani mariti ( tagli imposti pari a 250 metri di pellicola che faranno saltare ben due scene una in cui si vedono ballare fra loro dei ragazzi; l’altra in cui gli stessi ragazzi prendono in giro un vecchio). La censura non risparmierà nemmeno Antonioni: un taglio di 10 metri per I vinti, 3 tagli per complessivi 47 metri di pellicola per Il grido e 3 tagli per complessivi 71 metri di pellicola per La notte. Fra gli altri, saranno imposte modifiche anche a Un amore a Roma di Dino Risi, L’assassino di Petri, Odissea nuda di Rossi (11 tagli pari a 250 metri di pellicola) mentre Laura Nuda di Nicola Ferrari dovette penare parecchio e accettare qualche compromesso per arrivare ad essere distribuito in sala.
Erano davvero anni duri che, visti col senno di poi, lasciano davvero interdetti: un cronista del Radiocorriere (mica Playboy) perse addirittura il lavoro per aver pubblicato sul giornale la fotografia di un’attrice divorziata e si arriverà persino a tagliare una scena da La spiaggia di Lattuada (quella in cui un prete riceve dal protagonista una copia de L’Unità, mentre il questore di Roma arriverà a redarguire pesantemente i funzionari della sua questura rei di avere autorizzato una mostra di Pablo Picasso.
Si può stigmatizzare anche il comportamento di un baciapile come Gian Luigi Rondi che a proposito di Miracolo a Milano scrisse: “I poveri di De Sica sono poveri fra virgolette e occupano forse quella polemica che, con la parvenza di certe rivendicazioni proletarie, sostiene invece rivendicazioni di natura più decisamente politica”.
Da segnalare ancora che Anni difficili di Zampa rimase bloccato per lungo tempo perché “da un punto di vista della morale rileviamo –parola dei censori - che la condanna di un governo antidemocratico ha valore positivo, ma l’indole del film lo rende inadatto ad un pubblico giovanile”.
Altri paradossi? Roma, città aperta fu messa sotto accusa “per la rappresentazione di scene eccessivamente veriste”; Germania anno zero perché “col suo assoluto pessimismo e la mancanza di ogni pensiero religioso, appare moralmente sbagliato ed è da condannare” e Umberto D. “perché prospetta, senza risolverli, da un punto di vista umano, importanti problemi sociali senza nessun accenno a un benefico intervento di un sentimento religioso, né alle esigenze della morale cristiana”. (fonte “Quell’oscuro oggetto del desiderio – La censura editato dal Comune di Parma, Assessorato alla cultura - ufficio cinema, nel 1995).
[2] Quando nel 1944 Alberto Moravia tornò a Roma a seguito delle truppe alleate, era praticamente un autore tutt’altro che consolidato (i suoi erano stati fino a quel momento soprattutto scritti satirici con alcune incursioni nel surrealismo allora di gran moda, oltre a un discusso apologo politico – La Mascherata - che lo aveva reso inviso al regime che avevano però lasciato davvero poche tracce. Fu questo romanzo breve dunque il suo felice ritorno alla narrativa vera e propria che gli permise di conquistare il gradimento totale della critica e del pubblico. Considerato da subito un piccolo capolavoro, Agostino (un breve romanzo di formazione compatto, tagliente e di grande intensità letteraria che narra la storia di un adolescente dell’alta borghesia alla ricerca del padre perduto che assiste all’esplosione della vitalità sessuale della madre e che, roso dalla gelosia, tenterà goffamente di emularla finendo dentro a una combriccola di esuberanti ragazzini proletari succubi di un bagnino pederasta) fece infatti conquistare a Moravia il suo primo riconoscimento letterario (più esattamente quello de “Il Corriere Lombardo”, il primo ad essere istituito in Italia dopo la guerra) superando ai punti il suo più diretto contendente che era Cristo si è fermato a Ebolidi Carlo Levi.
[3] “(…) Venendo al film di Mauro Bolognini, devo prima di tutto dire che l’autore del libro non può chiedere che il regista sia fedele; ma può bensì chiedergli che faccia un bel film. E Mauro Bolognini ha senza dubbio fatto un bel film, uno dei suoi migliori. Quanto alla fedeltà, i cambiamenti ch’egli ha introdotto, riguardano piuttosto alcuni aspetti esteriori del romanzo che quello che racconta. In realtà l’Agostino di Bolognini ha urtato molta gente proprio perché è fedele alla sostanza del libro che è cruda e violenta pur nella sua semplicità. Certo, l’immagine cinematografica non dispone delle sfumature e gradualità che sono proprie della parola. Ma la sostanza non è stata tradita, al contrario: e che questo sia vero, lo dimostra l’insopportabile moralismo che ha risvegliato in una buona parte della critica.
Qual’è il rimprovero che viene mosso a Bolognini? Principalmente quello d’avere avuto la ‘mano pesante’ nella rappresentazione della banda dei ragazzi. Personalmente devo dire con sincerità che tutte le parti che riguardano la banda mi sono sembrate le migliori; e Bolognini, secondo me, non ha affatto avuto la mano pesante: così nel romanzo come nella realtà della vita, le bande dei ragazzi sono ben più brutali, spietate e corrotte che non nel suo film. Basta leggere con attenzione il romanzo o certi rapporti giornalistici sulle prodezze dei cosiddetti teen-agers americani per rendersene conto.
L’argomento del romanzo è il crollo dell’innocenza di Agostino al contatto con la realtà. Vorrei aggiungere che questa innocenza di Agostino è doppia: Agostino non soltanto non sa niente del sesso ma anche delle classi che si differenziano dal suo stato privilegiato. I ragazzi gli aprono gli occhi così alla realtà del sesso come a quella delle classi sociali; ossia gli fanno scoprire in una breve stagione marina, con dolore e lacerazione, ciò che Marx e Freud dimostrano nei loro libri: e cioè che in fondo ai rapporti sociali e ai rapporti familiari, non c’è mai innocenza. Mauro Bolognini, con l’impiego frequente dei primi piani del volto di Agostino via via esprimente i sentimenti della gelosia, della ripugnanza, dello sbigottimento, della tristezza, ha, secondo me, descritto assai poeticamente ed efficacemente il trapasso dal candore disarmato dell’infanzia alla consapevolezza dell’adolescenza. Qualcuno ha detto che questo trapasso non è stato approfondito. Ma non bisogna dimenticare che si tratta di un ragazzo appena adolescente cioè di un’età cruciale in cui tutto è ancora inespresso, in corso di rivelazione. Agostino dunque deve limitarsi a ‘vedere’ e la coscienza chiara ed esatta di ciò che vede non potrà venirgli che dopo molti anni.
Non mi fermo più che tanto a discutere il cambiamento di ambiente dalla Versilia alla Laguna di Venezia. Oltre tutto la Versilia del 1920 del mio libro, con il Fosso dell’Abate deserto e selvaggio e Viareggio che finiva al Bagno Marco Polo, non esiste più. Ma è proprio delle bande dei ragazzi prediligere per le loro prodezze i luoghi ibridi nei quali la città muore nella campagna e la città non è più città e la campagna non è ancora campagna. Perché questo? Forse perché anche i ragazzi sono ibridi, non più bambini e non ancora uomini. Ora Bolognini ha ambientato la vicenda in uno di questi luoghi ibridi, nell’acquatico suburbio veneziano, tra le isole più sconosciute e miserabili: qui la parte meno abitata del Lido e devo dire che la scelta non poteva essere più felice.
Infine dovrei parlare dell’interpretazione del ragazzo Colombo, di Ingrid Thulin, di John Saxson e di tutti gli altri giovanissimi attori. Ma questa non è una recensione e quello che penso dell’interpretazione mi pare sottinteso nella mia reazione positiva al film.
Vorrei soltanto dire a questo punto che non avrei scritto queste osservazioni se il film non fosse stato oggetto di attacchi che considero ingiusti. Non è la prima volta quest’anno che difendo il giovane cinema italiano contro la cecità della critica. Non sarà purtroppo nemmeno l’ultima” (Alberto Moravia).
Molti anni dopo (eravamo già nel decennio dei ’70) a seguito della pubblicazione postuma a cura della figlia Linuccia di Ernesto, il libro che Umberto Saba aveva scritto nel 1953 e mai dato alle stampe, fu chiesto a Moravia se ritenesse possibile un qualche paragone fra questi due racconti che parlavo entrambi di omosessualità. La risposta di Moravia fu lapidaria. “No, non c’è alcuna somiglianza fra Ernesto e Agostinosalvo quella che in entrambi i libri il protagonista è un bambino. In Ernesto l’omosessualità è accettata, in Agostino è respinta” o ancora non del tutto metabolizzata (aggiungo io).
[4] L’elenco delle pellicole di Bolognini che riguardano riletture in immagini di opere letterarie oltre ad Agostino, sono davvero molteplici e comprendono:
La giornata balorda dai Racconti romani di Alberto Moravia
La notte brava liberamente ispirato a Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini
Il bell’Antonio dal romanzo omonimo di Vitaliano Brancati
La viaccia da L’eredità di Mario Pratesi
Senilità dal romanzo omonimo di Italo Svevo
Madamigella di Maupin liberamente ispirato al romanzo omonimo di Thèophile Gautier
L’assoluto naturale dal romanzo omonimo di Goffredo Parise
Un bellissimo novembre dal romanzo omonimo di Ercole Patti
Metello dal romanzo omonimo di Vasco Pratolini
Bubù dal romanzo Bubu di Montparnasse di Charles L. Philippe
Per le antiche scale dal romanzo omonimo di Mario Tobino
L’eredità Ferramonti dal romanzo omonimo di Gaetano Carlo Chelli
La storia vera della signora delle camelie ispirato a La dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio
La certosa di Parma dal romanzo omonimo di Stendhal
La venexiana dalla commedia omonima di Anonimo del ’500
Gli indifferenti dal romanzo omonimo di Alberto Moravia
Arrangiatevi dalla commedia Casa nova… vita nova di Mario de Majo e Vinicio Gioli
La vena d’oro dall’omonima commedia di Guglielmo Zorzi
Fatti di gente per bene dagli atti processuali del delitto Murri
Comune denominatore di tutta la sua produzione è proprio quell’eccesso di calligrafismo a cui ho accennato prima, riscattato però in parte ( soprattutto nelle sue opere migliori) dalla profonda conoscenza che Bolognini aveva del mezzo filmico e che sapeva utilizzare molto bene anche quando affrontava i film più commerciali e meno personali e sentiti.
[5] volutamente cito anche questo vocabolo spesso considerato poco più di un sinonimo dell’altro ma che ha invece una valenza differente in quanto identifica un uomo che abusa minorenni come spesso raccontano le cronache anche ai giorni nostri.
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