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La doppia vita di Veronica

Regia di Krzysztof Kieslowski vedi scheda film

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La recensione su La doppia vita di Veronica

di EightAndHalf
7 stelle

...altresì detto Quattro Colori - Film Arancione, benché sia da precisare che i colori sono giallo e rosso, e che è la sintesi finale dei due che dà appunto l'idea, anzi, la percezione, che lo strato di colore predominante sia il caldo e torbido arancione. Poi sappiamo bene quanto Kieslowski adori virare le sue pellicole in diverse tonalità cromatiche (vedasi il Breve film sull'uccidere, o, più banalmente, la trilogia della Bandiera Francese), e pertanto, come un pittore perfettamente a conoscenza della goethiana Zie Farbenlehre, sa bene che ad ogni colore può corrispondere una sensazione, un'emozione, ricondotta tramite il cromatismo al suo stato puro e quindi più potente. Eppure, paradossalmente, la sua Doppia vita di Veronica è un film straordinariamente e unicamente cinematografico, non riconducibile a nessun'altra forma d'arte (nemmeno pittorica) se non, forzando di molto la mano, alla fotografia, che dopotutto è la matrigna del cinema stesso. E - cosa ancora più particolare - questo suo film del '91 è probabilmente e assurdamente uno dei meno belli della sua intera filmografia, ma ne è sicuramente un passaggio essenziale. Dal punto di vista di un approccio più prettamente schematico e globale, La doppia vita di Veronica è l'incontro impegnato e sperimentale del Kieslowski "fantastico", che faceva il fatalista in Destino cieco, e del Kieslowski più prettamente "esistenzialista", che ha realizzato opere quali Il cineamatoreLa tranquillità o ancora il primo, straordinario, episodio del Decalogo. E' dunque, La doppia vita di Veronica, un film a cavallo, e per questo è per certi versi irrisolto, contraddittorio, come "amputato", ma mai banale, né assolutamente fine a sé stesso e/o compiaciuto. E' invece un film che porta al grado zero la percezione soggettiva del singolo spettatore per immergere nel flusso semantico delle emozioni e dell'errabonda personalità della protagonista (o delle protagoniste, sempre supponendo che sia davvero importante la dislocazione geografica-temporale delle due: d'altronde in quel caso rimarremmo all'insipiente e insignificante estetica propria di Destino cieco). Così, coinvolti da un costante stato di straniamento e di frammentazione non solo psichica ma anche emotiva, gli spettatori divengono partecipi della lenta ma dinamica presa di coscienza della protagonista (di quale?), che sembra morire e poi tornare a vivere, senza però necessariamente rinascere. Non si parla di una semplice esperienza post mortem, ché alla fine si capisce che si tratta di due persone diverse, ma di un'analisi spirituale di come la coscienza della protagonista (e il suo inconscio, e il suo lato emozionale, soprattutto) diventi sola di fronte non solo agli altri, ma anche a se stessa. La frammentarietà è totale: lo spettatore ha pochissimi appigli per approcciarsi in maniera sistematica alla non-vicenda, così come la protagonista, anche dopo aver visto la foto della sua gemella in foto, si sente sempre sola. E' infatti come se lo stesso spettatore perdesse coscienza di se stesso, vedendosi riflesso in una protagonista (o in due protagoniste) e dunque riuscendo a vedersi addirittura da fuori (andando dunque ben oltre la frammentazione cubista) senza capirsi, probabilmente perché è il relativismo percettivo la conclusione di Kieslowski, e ancora perché neanche la mancanza di conoscenza risulta semplicemente frustrante, c'è da mettere anche l'assenza di un vero sentimento risolto. Veronica sembra passare da un amante all'altro magari nella convinzione di condurre una vita normale, ma in realtà necessariamente consapevole di non sapere davvero dove stare mettendo i piedi, senza capire in che senso e in che modo si trovi in una parte di mondo diversa da quella dell'altra Veronica, ma comunque capendo di non capire. Non è poi il semplice lato razionale a contare: è la solitudine, in parte causata dall'insipienza intellettiva, in parte causata dall'incapacità di trovare l'Altro e nemmeno il Sé, anche se le due dimensioni finiscono per coincidere e ci troviamo di fronte a un'illusoria possibilità di appagamento. Questo per dire che la diffrazione dell'identità di Veronica non ha alcun tipo di comparto psicanalitico alle spalle, o quantomeno non è l'aspetto che interessa Kieslowski; egli invece mira a rendere fin nella profondità dei sensi dello spettatore la solitudine esistenziale (e anche percettiva) che vive la protagonista. Lo stesso utilizzo del giallo e del rosso (e, dunque, dell'arancione) dà uno strano senso di torpore che - paradossalmente - potrebbe essere scambiato per noia; al contrario, La doppia vita di Veronica risulta alla fin fine tonificante e revitalizzante, come quando usciti dalla visione del film ci accorgiamo di sentire di più, di percepire con una purezza nuova, compiuta, il che certo non ci concede quell'ottimismo che Kieslowski in linea di massima esclude, ma che ci permette di entrare in un contatto più profondo con le nostre emozioni e, addirittura, con la nostra vista e il nostro udito. Nei continui contrari cui poi il regista allude, dalle immagini "capovolte" oltre gli specchi ai diversi comportamenti delle due Veroniche (divisione, però, assolutamente non simmetrica, poiché prettamente emozionale, come in Film Blu), si può capire come il film, nonostante sembri statico, in realtà è in costante movimento, è nella costante ricerca di un senso, un po' la ricerca più vecchia e stra-nota del mondo, ma stavolta condotta attraverso i sensi, le immanenze, le coordinate sonore (vedi la sequenza della registrazione, o anche il canto [che, assurdamente, genera anche morte]), verso un Cinema assolutamente non consolatorio che risulta volutamente irrisolto tanto quanto inappagante, privo di risposte, coraggiosissimo. Che poi l'ultima fase, dell'incontro con lo scrittore, sia un po' un'aggiunta che confonde ancora di più le carte (com'è giusto, in parte, che sia), è un fatto abbastanza secondario, benché anche qui la dimensione allegorica sia molto invadente (in senso buono): l'utilizzo delle marionette, il gesticolare con dei pupazzi che sprizzano "coscienza", cose che mettono in primo piano anche la stessa figura dell'autore Kieslowski, che forse è altrettanto perso, o che forse è riuscito a trovare, nel Cinema e nei colori, una risposta parzialmente consapevole della nostra inconsapevolezza. Comunque, una grande boccata d'aria per lo spettatore medio e avvizzito.

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