Regia di Bo Widerberg vedi scheda film
Adalen 31, diretto nel 1969 da Bo Widerberg (che ebbe un breve momento di meritata gloria internazionale proprio negli anni a cavallo fra ’60 e i ’70 del secolo scorso) è un dramma imperniato sui fatti cruenti che portarono al potere i socialdemocratici nella Svezia de 1931.
Bo Widerberg è stato (e va a suo merito) uno dei rari cineasti svedesi socialmente impegnati di quel periodo. Mai prolisso o verboso, né tantomeno predicatorio, in questo film è riuscito infatti ad inserire all’interno di un quadro intimista che ben illustra la vita di allora, una tematica fortemente politica relativa agli avvenimenti che segnarono in positivo la storia della sua nazione.
Il film è dunque ambientato nel 1931 ad Adalen, una cittadina del nord del paese bloccato da varie settimane da uno sciopero dei lavoratori per una grave vertenza volta alla difesa dei propri diritti, che verrà poi tragicamente represso dal sanguinoso intervento delle forze armate (che causò la morte di cinque persone) che, per sedare la protesta, non esitarono ad aprire il fuoco contro i manifestanti laburisti...
Nonostante la tematica però, è tutt’altro che un film che adesso si definirebbe “schierato” (di parte insomma) poiché la tesi ideologica di fondo che il film contiene e che è anche ben sviluppata, non è urlata a piena voce, ma si fa leggere e interpretare dallo spettatore attraverso le vicende e le azioni personali (spesso private) dei vari personaggi che popolano la pellicola. Le ingiustizie che il film denuncia si evidenziano infatti, partendo dalla serenità della vita familiare ben rappresentata nelle scene iniziali,per esplicitarsi poi nella successiva, progressiva modificazione dei gesti quotidiani e dei rapporti interfamiliari che lentamente si deteriorano via via che il dramma prende forma fino al suo epilogo.
Anche se in Italia il film è ricordato principalmente per i sui contenuti politici, sono soprattutto cinematografici i suoi meriti (che gli fece guadagnare il premio per la regia al Festival di Cannes oltre a una candidatura agli Oscar nella categoria dei film stranieri) e questo a partire dalla bella fotografia in Technicolor di Jörgen Persson (già responsabile dello straordinario risultato figurativo di Elvira Madigan, precedentefaticadelregista incentrata su una romantica storia d’amore senza lieto fine) che rimanda direttamente alla pittura impressionista, e in particolare a quella di Renoir, il cui nome ricorre spesso diventando anch’esso un inconfutabile segno di ingiustizia sociale
Le nuance,gli straordinari colori della tavolozza, la loto composizione cromatica, sono così efficaci da restituirci in toto tutte le vibrazioni della luce (esattamente come succede guardando i quadri del periodo fecondo dell’impressionismo francese) e, contribuiscono a rendere ancor più toccante e assurda la tragica fine di alcuni dei suoi protagonisti).
Un film insomma privo di retorica molto ben fatto, preciso nell’analizzare quello che succede non solo
nelle file degli scioperanti in relazione alla sacrosanta vertenza che stanno portando avanti, ma anche dentro le loro famiglie e i loro sentimenti che non possono certo restare esenti dall’essere direttamente coinvolti nella drammatica evoluzione della storia.
Sinossi (attenzione: in questo capitolo ci sono spoiler)
Come si evince anche dal titolo, il film è ambientato nel 1931 nella città di Adalen in sciopero da qualche settimana, Al centro della storia c’è la famiglia operaia degli Andersson il cui capofamiglia (di professione scaricatore) fa parte degli scioperanti, mentre la madre, per racimolare qualche soldo in più, si adatta a fare la lavandaia per i ricchi del paese.
La coppia ha tre figli, ma la macchina da presa seguirà soprattutto la vita del primogenito (il diciassettenne Kjell alle prese con i primi fermenti sessuali della gioventù) che ama, ricambiato, Anna, la figlia del direttore della fabbrica in cui lavora il padre.
Nonostante la differenza di rango, la relazione va avanti senza grossi scossoni ed è vista di buon occhio soprattutto dalla madre della ragazza che riceve spesso a casa sua il giovane con cui ama parlare di pittura.
I contrasti sociali diventano però palesi e non più tollerabili, quando la ragazza resta incinta e i suoi, per evitare il matrimonio con un ragazzo di una classe così inferiore e contrapposta alla loro, la costringono ad abortire.
Intanto anche i conflitti fra i padroni e gli operai in lotta, diventano incandescenti perché nessuno ha intenzione di riprendere il lavoro se le loro richieste non verranno soddisfatte. Lo scontro diventa così sempre più feroce, tanto che per poter riaprire le fabbriche i loro proprietari assumono dei crumiri, cosa questa che fa ulteriormente aumentare la tensione. Così, dopo un ennesimo corteo di protesta gli scioperanti decidono di attaccare i crumiri barricati nelle fabbriche.
In quel clima arroventato rischia di pagare un alto prezzo anche il capofamiglia degli Andersson che, spinto dal forte spirito umanitario che lo connota, decide di trasportare a casa sua per curarlo, uno dei crumiri rimasto ferito negli scontri.
La rivolta si espande e finisce per coinvolgere anche la città vicina. E’ a quel punto che l’esercito, arrivato in forze, attende gli scioperanti al varco, li fronteggia con prepotenza, cerca inutilmente di arginarli e alla fine spara su di loro facendo una strage: Fra i morti, c’è anche Adersson padre e Nisse, un amico di Kjell. La vita del giovane, vien quindi sconvolta da una serie di lutti, quelli per la morte del padre e dell’amico e quello causato dalla perdita del figlio a cui è stata negata la possibilità di venire al mondo,
La sua presa di coscienza è immediata, e con quella, avverte il prepotente bisogno di prendere importanti decisioni non più rimandabili che modificheranno tutta la sua vita. Abbandona infatti le sue idee moderate e rinuncia anche ad Anna non perché è finito il suo amore per lei, ma perché non vuole avere più niente da spartire con la classe borghese a cui appartiene la ragazza a cui attribuisce òa responsabile di tutti questi lutti...
Il regista
Bo Widerberg (Malmö, 8 giugno 1930 – Ängelholm, 1º maggio 1997) iniziò la sua carriera come romanziere diventando poi, nei primi anni ’60, critico cinematografico (in tale veste pubblicò Visionen i svensk film, un saggio in cui attaccava duramente i cliché commerciali in cui era caduto negli anni ’50 il cinema scandinavo, contrapponendo addirittura a Bergman e a Donner la Nouvelle Vague, il Free cinema inglese e quello di Cassavetes.
La sua aspirazione al realismo e a una tecnica cinematografica che considerava più moderna e attuale, prese così corpo già nelle sue prime esperienze da regista: Barnvagnen (Carrozzina per bambini) del 1962, Kvarteret Karpen (Borgata del corvo) del 1963 recensita sul sito da @millertropico (//www.filmtv.it/film/27106/borgata-del-corvo/recensioni/734172/#rfr:film-27106) e Kärlek 65 (Amore 65) del 1965 (una specie di rilettura meditata dei soggetti e delle tecniche adottate dalle cinematografie ispiratrici sopra evidenziate).
Nonostante alcune cadute nell’accademismo e nell’ovvietà (perdonabilissime nelle prime esperienze di lavoro) le enciclopedie del cinema ci segnalano che il secondo titolo è da annoverare fra i suoi migliori risultati per equilibrio e gusto figurativo poiché contengono già i prodromi che segneranno in positivo le sue opere della maturità artistica (la connessione armonica fra realismo e poeticità dell’immagine, e l’uso pittorico della luce naturale on particolare).
Dopo un’ esperienza poco significativa nel campo della commedia (Heja Roland!,1966) nel quale il regista non riesce ad andare oltre una meccanica successione di gag, avverrà una importante svolta nella sua carriera che finalmente indirizzerà il suo cinema verso tematiche più sociali con precisi riferimenti a fatti realmente accaduti. Questo gli consentirà di rappresentare nella particolare forma di un cinema prezioso nelle immagini (che a volte rischia però di sfiorare il calligrafismo) la lotta per il superamento delle norme oppressive (economiche, esistenziali e sociali) imposte dallo stile di vita borghese, insieme alla precisa e costante interconnessione tra sfera individuale e collettiva che rimarrà, almeno in quel periodo, la cifra stilistica che meglio lo rappresenta.
E’ da queste prospettive operative che nascono sia Elvira Madigan che Adalen 31, i due più interessanti e riusciti tentativi fatti in quella direzione, il primo prendendo spunto da una storia d’amore realmente accaduta nel 1889; il secondo (come si è visto) da un reale avvenimento politico di importanza epocale per la Svezia). Due opere di analoga opulenza figurativa che si divaricheranno però nella loro costruzione narrativa, il primo percorrendo la strada più intimista del sentimento tout court, il secondo sposando invece l’ottica della passione per il sociale. In entrambi dominano comunque l’insofferenza e la tensione indotte da una generalizzata oppressione, rappresentate attraverso un’attenta indagine psicologica in cui il pudore sfuma le cadute nell’emotività e in cui il tratto dominante rimane, al di là dell’accurato realismo delle ricostruzioni, il lirismo poetico (Emanuela Martini).
Seguirà Joe Hill (1971) girato negli Stati Uniti che è la storia del fondatore dell’Industrial Workers of the World che è stata una delle pochissime organizzazioni operaie rivoluzionarie di quel paese e in cui il regista tenta una fusione precisa tra ribellione personale e momento di presa di coscienza collettiva coniugndo dramma sociale e romanticismo (che nasconde però nelle sue pieghe piccole pillole di populismo). Lo fa però in una forma molto originale che dà origine a un’opera che diventa una specie di ballata.
Seguirà nel 1974 un’altra commediola di poco conto (Fimpen il goleador) e, nel 1976, Mannen patachet (L’uomo sul tetto) una digressione nell’ambito del poliziesco, tutt’altro che di ampio respiro, ma comunque ben calibrata e percorsa da un’intelligente vena ironica (recensito sul sito da @John Nada (//www.filmtv.it/film/29197/l-uomo-sul-tetto/recensioni/691084/#rfr:film-29197).
Poi di lui, almeno qui in Italia, si perderanno totalmente le tracce e lo ritroveremo solo nel 1996 (un anno prima della sua dipartita) con Passioni pribite, sua ultima fatica, un’opera che non ho avuto modo divedere ma che il Morandini trova ancora interessante soprattutto nella prima parte (e un po’ farraginosa nella seconda) che divaga inutilmente nella guerra e nel sociale e si ingorga in verbosi monologhi e che (se non ricordo male) fu anche candidata all’Oscar come miglior film straniero col titolo All Things Fair.
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