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Megalopolis

Regia di Francis Ford Coppola vedi scheda film

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Souther78

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La recensione su Megalopolis

di Souther78
4 stelle

L'estetica è l'altare ove immolare narrazione, rigore narrativo, morale, fruibilità dell'opera e perfino recitazione. Opera ambiziosa travolta da se stessa, che non convince dall'inizio alla fine. L'unica certezza è che l'età d'oro di Coppola sia iniziata e finita negli anni '70, mentre la vena creativa è ormai da tempo incancrenita.

 
Eppure, vedi bene che quanto di più autentico, originale, innovativo, genuino, spontaneo e sentito abbiamo da dare, lo diamo nella prima parte della nostra vita. Sia un'opera letteraria, musica, film, invenzione o scoperta. L'esperienza che viene con l'età può modellare, arricchire, approfondire, e magari perfino interpretare; tuttavia, il fuoco della volontà, la spinta degli ideali, le attitudini innate, che albergano in noi, lentamente ma inesorabilmente, si affievoliscono, si confondono, si mescolano ai pensieri, alle suggestioni, alle briglie della società, fino a rendere spurio ciò che era nato puro.
 
Allorchè l'arte diviene mestiere, poi, il rischio di reiterazione si fa sempre più tangibile: come si può sostentarsi attraverso qualcosa che non può, se non alimentarsi di genio improvviso, di sincero moto interiore traslato in versi o musica o immagini, o Dio solo sa cos'altro? Così, dall'arte si passa alla tecnica, che pur consente ancora di conseguire risultati degni di nota, ma cionondimeno del tutto imbastarditi rispetto a ciò che fummo.
 
Coppola iniziò a fare cinema quando la maggior parte di noi è a malapena entrata nel mondo del lavoro, o, casomai, dell'università, ben lungi dal conoscere quale sarà il proprio colore finale, e quale forma assumerà il suo essere, plasmato dal rodaggio della vita.
All'età di 33 anni, la stessa in cui Cesare cadeva in ginocchio dinanzi alla statua di Alessandro Magno, piangendo per non aver ancora realizzato alcunchè giunto alla medesima età alla quale il macedone era già padrone del mondo, Coppola consegna alla storia un capolavoro indiscusso nella storia del cinema, da molti (compreso chi scrive, e pur anteponendogli nell'affezione Barry Lyndon) considerato il film migliore di sempre. 50 anni dopo, tanto di cappello all'uomo e al regista che, mentre i più tra i suoi coetanei sono sepolti (morti, sottoterra, oppure vivi, in tetri ospizi), offre al cinema un'opera complessa, stratificata e personale come Megalopolis
 
Ci accostiamo a questo mostro sacro carichi di aspettative e trepidanti: l'idea, sulla carta, è affascinante e originale. Una Roma antica moderna, in cui gli intrighi di palazzo si confondono con il lobbysmo e i media della società americana del terzo millennio, mentre il regista, con il suo retaggio italico, assurge a trait d'union tra il vecchio (Roma) e il nuovo (Stati Uniti). 
Si sprecano le citazioni, a partire dai nomi dei protagonisti, e per continuare con le Catilinarie, mentre il regista ci dirige attraverso le innumerevoli analogie tra il mondo che fu e quello che è, al punto che sembra suggerire come, perfino eliminando la finzione nella sovrapposizione tra società romana e americana, il risultato non cambi: corruzione, ambizione, tradimenti, complotti, alleanze scellerate guidavano la politica, allora come oggi.
 
L'opera si presenta visionaria, al punto da ostentarlo palesemente, così segnando fatalmente l'esito finale.
 
I pretenziosi riferimenti, che sconfinano nelle testuali citazioni, appesantiscono fin da principio, spiazzando lo spettatore che non sa se si trova dinanzi a una messinscena shakespiriana, o a un'opera originale: stiamo parlando del Catilina dell'antica Roma, oppure di quello fittizio moderno? E che dire di Cicerone? Lo stile ibrido tra antico e futuribile si rivela scellerato, sfociando in un'estetica kitsch e fine a se stessa, che di certo risalta, ma alla lunga stanca.
 
I personaggi sembrano in un perenne stato di confusione mentale, mentre si stenta a seguirne le gesta, a causa di un affastellamento espositivo talmente spinto da provocare quasi capogiro, ove non già la nausea.
 
Inutile ribadire come Adam Driver sia uno degli attori più sovrastimati della storia del cinema: con la sua altezza spropositata, il faccione enorme, le labbra carnose che lo fanno assomigliare a un perenne bambinone impaurito e imbronciato, i suoi nei ubiqui che quasi distraggono lo spettatore, sembra perennemente fuori parte. Paradossalmente, proprio in quest'opera sembra sfigurare meno, interpretando un personaggio insensato e incomprensibile. Per contro, Jon Voight appare stracotto e i suoi occhi sbarrati non fanno che peggiorare la situazione. 
 
La commistione tra storia, fantascienza, dramma, thriller, fantasy, sentimentale e genere epico è francamente troppo, e qualsiasi fossero le idee di partenza, il risultato assomiglia tanto a uno di quei frullati in cui i pezzi non si sono amalgamati tra loro, e, così, si trovano qua e là pezzi interi. 
Su tutto prevale l'estetica, al punto da svuotare narrazione e personaggi, e farci perfino interrogare sul senso complessivo del film: a parte l'implicita apologia della città 15 (anzi 5) minuti (aberrazione massonica per ingabbiare i cittadini, facendoli sentire privilegiati), non si riesce a contestualizzare molta parte degli eventi, e il tutto sfugge in breve al controllo.
 
Ci sentiamo trascinati in uno spettacolo pirotecnico a tratti imbarazzante, in attesa di una svolta risolutrice che, però, non giungerà mai: tra un Cicerone nero e un Catilina architetto anzichè militare, stentiamo a cogliere il senso dei riferimenti storici, mentre ci perdiamo nei meandri della mente dell'autore-regista-produttore. Registi migliori o peggiori di lui ci hanno già mostrato come la vena creativa registica segua una fatale parabola, che può raggiungere il suo apice perfino attorno ai 50, ma declina irreversibilmente dopo mezzo secolo di mestiere: così i capolavori di Kubrick e Scorsese sono tutti entro quell'arco temporale, mentre le opere compiute nella terza età sono pallide esecuzioni al confronto. Perfino Clint Eastwood, che continua a dimostrarsi un prolifico regista, e che ha diretto per la prima volta a 41 anni, ha sfoggiato i suoi capolavori entro vent'anni dagli esordi, mentre le opere più tarde sono andate via via degradando, con l'ultima opera realmente di livello, realizzata ormai vent'anni fa.
 
Si dice che questo progetto, Coppola lo cullasse da tanto tempo: forse troppo, aggiungeremmo oggi, all'esito della visione. Difficile dire se nel corso degli anni abbia affastellato troppe idee, trasformando ciò che avrebbe potuto essere lineare in arzigogolato e cervellotico, oppure se si sia trattato del desiderio di misurarsi con una realtà cinematografica sempre più visiva e virtuale, che svilisce il contenuto a favore del contenitore. Certo è che stentiamo a trovare l'anima dell'autore in questo polpettone, pasticciato all'inverosimile e mortificante nel paragone con l'essenzialità espositiva de Il padrino, o con le sequenze scolpite nella memoria collettiva di Apocalypse Now. 
 
Dopo il fallimentare Twixt, il regista sembra non aver appreso alcuna lezione, e, a distanza di 12 anni offre al pubblico ciò che sembrerebbe più un tentativo sperimentale di affermarsi in un panorama troppo affollato e povero di idee, anzichè il canto del cigno di un regista parco, e però iscritto a buon diritto nella storia del cinema.
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