Regia di Francis Ford Coppola vedi scheda film
Molto più piacevole se non si considerano le ambizioni fallimentari che Coppola ripone in questo progetto: una lezione di cinema riuscita a metà, che difficilmente verrà accolta; una lezione di vita che semplifica eccessivamente la realtà riducendola ad una favola. Forse più presunzione che genio.
Una nuova visione per il futuro del cinema, una nuova visione per il futuro dell’umanità. È la doppia proposta di Megalopolis, celebrazione di un artista in grado di innalzarsi sulle dinamiche di una società in rovina, travolta dalla fame di sesso, di denaro e di potere, per proporre un modello di vita che possa sopravvivere la prova del tempo e risollevare il destino dell’umanità. L’arte e l’ideazione come forma di eternazione; l’arte come diretta estensione dell’amore; l’arte come dono ossessivo del passato, ma sempre proiettato verso il futuro.
Queste le idee che permeano filosoficamente Megalopolis; ma Coppola ci regala tutta un’altra serie di suggestioni di natura estetica, con una concezione molto personale di cinema, con uno stile bulimico, evocativo e ricco di sottolineature, svincolato dal realismo della narrazione e forse addirittura permeato da quella curiosità di sperimentare con il mezzo cinematografico che troviamo nel cinema degli albori (o almeno, in quel poco che ho visto).
Tutto bellissimo, se non fosse che a questo punto bisogna chiedersi: quanto è incisiva questa operazione, nel suo duplice ruolo di ispirazione delle nuove generazioni di filmmaker e delle nuove generazioni di esseri umani? Mi dispiace per nonno Francis (o in modo più giovanilistico zi’ Ciccio, come il leggendario Coppola ha chiesto di essere chiamato da Mara Venier), ma la mia risposta è: non molto.
Dal punto di vista della storia del cinema, possiamo ipotizzare al massimo che prenda la stessa strada di Blade Runner, un film poco visto e poco amato all’uscita, che in seguito è stato recuperato, apprezzato e riproposta. È difficile essere certi: anche perché l’estetica di Blade Runner era unica e raffinatissima. Lo stile di Coppola invece è molto personale, ed è pieno di difetti: poco elegante (mai avrei pensato di rivolgere una critica del gente al regista de La conversazione), molto calcato, folle di una follia a punti più indecisa che ispirata, come poteva essere invece quella dell’assolo jazzistico finale di Babylon. Coppola fa troppo spesso appello alla sospensione dell’incredulità, il che è lecito in una favola, ma talvolta adotta soluzioni troppo marchiane, e soprattutto, crea una coltre così pesante che mette sempre in secondo piano la sostanza, con la sua esuberanza ci ricorda in ogni momento che stiamo guardando un film, il nuovo film di Francis Ford Coppola, un film che dovrebbe cambiare le sorti del cinema, e probabilmente non lo farà. Per non dimenticare la favola più favolistica di tutte: sfido a trovare un giovane regista in circolazione in grado di sganciare 120 milioni presi da altre attività imprenditoriali per finanziarsi il proprio film, con piena libertà creativa, senza scoraggiarsi ai rifiuti degli studios. Giusto Tommy Wiseau. Un pioniere.
In ogni caso io, come semplice spettatrice, potrei non avere totalmente il diritto (entitles me? Yeeeees) di parlare di cinema. Se però considero questo film dalla mia prospettiva di persona di 23 anni con una miriade di interrogativi personali e globali sul futuro, Megalopolis non è solo insignificante, ma è al limite dell’offensivo. Coppola potrà anche parlare del mondo di oggi, ma non è in grado di parlare al mondo di oggi, di dare suggerimenti applicabili in una realtà così vasta e complessa che non si può risolvere nella forma semplicistica della favola. Nella favola esistono le panacee, quasi si sconfigge la morte, gli immensi benefici dell’invenzione del Megalon idealmente giustificano l’oscuramento delle istanze concrete della massa (la mancanza di cibo, la mancanza di una casa). Addirittura, nel voler demonizzare qualsiasi nemico di Catilina quanto più possibile, Coppola finisce per confondere un disagio vero e tangibile con il populismo e i regimi dittatoriali: nessuno dice che non ci sia una relazione, ma non possiamo aspettarci che un monologo dell’uomo più geniale del mondo possa mettere tutti gli animi in pace. È il momento in cui si mette in dubbio la validità del genio, e si finisce per considerarlo solo come presunzione.
Alla fine, Megalopolis è un film autoreferenziale, privo di sbocchi sul mondo reale, del cinema e oltre; un volo pindarico, più che un canto del cigno; un’operazione inorganica, che parla di amore fondandosi su un romanticismo sterile e trito, di futuro ancorandosi al passato, di visionarietà appellandosi alla banalità di aforismi da Instagram (addirittura, si cita un poeta misconosciuto britannico di fine seicento, un certo Shakespeare, non so se l’avete mai sentito nominare). Per chi vuole salvare qualcosa, rimane lo spettacolo, e il divertente gioco di riscrivere passato e futuro insieme, rovesciando uno spunto che abbiamo imparato a banalizzare all'epoca delle superiori (Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?) e ricordandoci che una rivoluzione, di intelletto e non solo di rabbia, forse è possibile. Con quel forse che grava sempre sul nostro ottimismo.
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