Regia di David Miller vedi scheda film
Quando questo film uscì, fu un fiasco. Il pubblico americano non ama i perdenti e odia che i generi classici vengano stravolti.
Non si può negare infatti, che si tratti della storia di un “loser” e neanche che ci troviamo di fronte, pure se "obtorto collo", ad un western.
Eppure Kirk Douglas aveva scommesso su questo film. Aveva comprato due anni prima(nel 1960) i diritti dal romanzo di Edward Abbey e investito parte del suo patrimonio nella sua realizzazione. La Universal era stata convinta a produrlo, anche se aveva messo alcuni paletti (condivisibili). Aveva accettato che a scrivere la sceneggiatura fosse Dalton Trumbo, forse il maggior sceneggiatore allora esistente, noto per essere stato messo nella lista nera dalla Commissione per le attività non americane (la HUAAC) e costretto alla clandestinità pur continuando a usare nomi fasulli per poter sbarcare il lunario.
Non aveva però accettato che il film fosse proiettato, per sondare le reazioni, in qualche sala periferica o del tipo d'essai.
Douglas era rimasto affascinato dal talento di Trumbo in occasione del film SPARTACUS, di Kubrick, in cui egli interpretava il ruolo del gladiatore trace e lo aveva imposto allo Studio.
Il regista suggerito dalla Universal era David Miller, un regista onesto e capace. Douglas non ebbe nulla da obiettare. Pare anzi, lo racconta il regista stesso, che Kirk si comportasse bene e che non manifestasse mai la sua deplorevole tendenza a sovrapporsi al lavoro del regista e tiranneggiarlo.
Lo stesso Abbey, quando vide il film, dichiarò che il lavoro di Trumbo era molto più vivo, vigoroso e brillante del suo romanzo.
A cinquant’anni di distanza, il film paga un indubbio tributo al tempo. E’ in bianco e nero, malinconico, è un western spurio (suggellato dalla splendida scena iniziale: il cowboy sdraiato in campo aperto e subito dopo il rombo di jet che solcano il cielo) e finisce male.
Eppure vale la pena parlarne perché si tratta, nonostante il passo del tempo e il flop al botteghino, di un piccolo capolavoro.
Ad un occhio attento, i registri interpretativi sono molteplici. Al piano più basso, si potrebbe pensare a una storia malinconica di un cowboy incapace di adattarsi alla modernità. Ad un livello superiore, ci troviamo di fronte al desiderio di libertà di un uomo, irriducibile alle regole di una società che incide sempre più sulle scelte dell’individuo. In ultima istanza, ci troviamo di fronte alla metafora del conflitto uomo-società, espressa in modo magistrale da dialoghi intensi, sofferti, pregnanti come pochi nella storia del cinema.
La storia di Dalton Trumbo, come spesso avviene con i suoi lavori, si mescola inscindibilmente con i suoi personaggi. Jack Burns (Douglas) è un cowboy moderno che appartiene al passato. Non ha documenti, non ha fissa dimora. Ha un amico (Paul), un vero amico (perché è un po’ come lui: è in galera per aver fatto entrare clandestinamente alcuni immigrati). Ha un’amica (la moglie di Paul), di cui un tempo era innamorato. Il dialogo seguente è rivelatore della sua personalità:
Jack : Non l’ho voluto abbastanza. Non volevo una casa, non volevo tutte quelle pentole e padelle- Non volevo altro che te. Sia benedetto il Signore che non ti ho avuto.
Jerri : Perché?
Jack : Perché sono un solitario fino nel fondo della mia anima. Tu sai che cos’è un solitario? E’ uno zoppo nato. E’ zoppo perché la sola persona con cui può convivere è lui stesso. E’ la sua vita, il modo in cui vuole viverla- è tutto per lui. Un tipo così finirebbe per deluderti. Perché non potrebbe amarti. Almeno non nel modo in cui tu sei amata.
Burns forse non è un personaggio reale ma solo un simbolo di come dovrebbe essere un uomo libero, secondo Trumbo (così come accadeva con Spartaco). Spesso però, come si sa, sono i personaggi-simbolo a muovere le folle. Sono le sue virtù portate all’estremo a sgretolare le granitiche convenzioni e la staticità del quieto vivere.
Il cinema americano è ben consapevole di questo e fa dell’individuo una sorta di simbologia del tutto possibile (celebre la storiella del lustrascarpe che può diventare presidente). Ma così come il pubblico è pronto a scatenarsi e fare la fila al botteghino per ammirare le gesta degli interpreti storici del trionfo individualista (da Errol Flynn a Marlon Brando, da Gary Cooper a Jimmy Stewart ecc.), è al tempo stesso spietato quando l’eroe viene messo al tappeto.
I personaggi di Trumbo, così come lo sceneggiatore stesso, sono la personificazione dello scacco dell’individuo schiacciato dal sistema, così come avviene per certi registi come Bob Aldrich, Peckinpah, Polonski, Rosenberg, Pollack ecc.
Dietro Burns, dietro questo cowboy bislacco, c’è l’uomo che una società vorrebbe catalogare, etichettare, comprimere e condizionare.
Ma, soprattutto, c’è qualcosa di cui si sente la mancanza e cioè la libertà. La storia di Trumbo è un pò la storia di Jack Burns. Trumbo non ha potuto esercitare un suo inalienabile diritto, quello cioè di esprimere le sue idee. E ha pagato con il carcere e la sua espulsione dal mondo del cinema. Così come Paul, l’amico di Burns (una variante dello stesso Burns), paga con il carcere quello che egli ritiene profondamente giusto e cioè permettere a degli immigrati di poter entrare in territorio americano per poter avere una chance e lasciarsi miseria e fame alle spalle.
Il fascino dell’eroe perdente potrebbe però risultare alquanto sterile se a sorreggere la sua storia non ci fosse il talento di un regista o di un grande sceneggiatore.
Pensiamo ad esempio all’inquadratura finale del film. Hanno appena portato via in ambulanza il povero Jack, travolto da un camion mentre stava attraversando a cavallo una strada molto trafficata, sotto una pioggia battente. Il suo cavallo giace al bordo della strada, dopo che un poliziotto ha messo fine alle sue sofferenze.
In mezzo alla strada, rimane solo il suo cappello da cowboy,sotto la pioggia. E’ ormai buio e la strada è un viavai forsennato di automezzi e di automobilisti che nulla sanno del dramma che si è appena compiuto.
Quel cappello è uno straordinario simbolo del conflitto che ha animato tutto il film: la disperata voglia di libertà, di vivere al di fuori di regole di una civiltà che troppo spesso è maniacale repressione. E’ un cappello che ha vissuto momenti migliori: giornate passate all’aria aperta tra polvere e mandrie, tra giacigli di fortuna di notte e colazioni frugali. Un cappello che ha conosciuto la libertà di andare dove si vuole, quando si vuole e come si vuole. Di scegliere quando partire e quando tornare. Di essere solo o accompagnato, ma più spesso di vivere la propria solitudine con la nobiltà dell’operare non a discapito degli altri, ma nella speranza di trovare veri amici e, una volta trovati, rischiare la vita per loro.
Quel cappello, da un momento all’altro, verrà schiacciato dalle ruote di un pesante automezzo e un altro pezzo di libertà se ne sarà andato.
Non è dato sapere se il buon Jack riuscirà a salvare la pelle. Per la filosofia del film è quello che meno importa. Una prova in più del valore simbolico del film.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta