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Il sole sorge ancora

Regia di Aldo Vergano vedi scheda film

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La recensione su Il sole sorge ancora

di Antisistema
7 stelle

Secondo una nutrita pattuglia critica, la stagione neorealista, deve essere ristretta ad un pugno di film diretti dalla triade Rossellini-Visconti-De Sica, in un periodo che spazia da “Ossessione” (1943), fino alle opere di inizio anni 50’.
Tale tesi estremamente riduttiva, se accolta, finirebbe con il tagliar fuori altre opere interessanti ascrivibili a tale movimento - che essendo privo di un manifesto codificato, i suoi “topoi” stilistico-narrativi, sono stati dedotti per lo più a-posteriori, dagli anni 50’ in poi -.
Il regista Aldo Vergano, nonostante la fede comunista ed anti-fascista, negli anni trenta svolse attività di sceneggiatore e soggettista di film del cosiddetto cinema dei telefoni bianchi, per poi girare verso la fine degli anni 30’ ed inizio 40’, opere di propaganda per il regime, verso cui, prende le distanze anche dal punto di vista artistico-lavorativo con “Il Sole Sorge Ancora” (1946), opera neorealista incentrata sulla resistenza italiana – finanziata totalmente dall’A.N.P.I. -, dai chiari debiti nei confronti di “Roma Città Aperta” di Roberto Rossellini (1945), nel tema della lotta partigiana e nella figura del prete.
L’importanza del film, più che nella sua qualità, risiede nel fatto di aver dato spazio ed occasione di lavoro, a tanti tecnici, registi e critici, che faranno la storia del cinema italiano; la sceneggiatura si avvale dei contributi di Aristarco, De Santis e Lizzani, mentre tra gli interpreti troviamo i futuri registi Carlo Lizzani (Don Camillo) e Gillo Pontecorvo (Pietro).
La pellicola risulta essere sospesa in un approccio a metà tra la celebrazione della resistenza – come volevano gli stessi finanziatori del resto, che nei titoli di testa dedicano il film ai loro compagni caduti per la libertà –, ed un’analisi sociologica incentrata sul dualismo tra la lotta partigiana ed popolo italiano – rappresentato nelle sue varie sfaccettature; ricchi borghesi, contadini e lavoratori dipendenti della fornace -.
Nella contrapposizione partigiani-oppressori, Vergano cerca di uscire dalla mitologia che si andava già formando all’epoca, che vedeva gli italiani come “brava gente”, nel ruolo di vittime innocenti della barbarie nazista, a cui i fascisti venivano assimilati in toto, senza discernere il contributo criminale di quest’ultimi, come se dall’Ottobre 1922 fino a Giugno 1940, tutto quello che era successo, andava rimosso.
E’ un piccolo paese fuori Milano, quello in cui è ambientata la pellicola, ma avrebbe potuto essere qualunque altro piccolo comune del centro-nord post 8 Settembre 1943, senza più una guida ed un’autorità da seguire, stufo della guerra, senza rendersi conto di essere immersi in un conflitto mondiale, che di certo non si poteva fermare con l’armistizio di Cassibile, gestito dal governo Badoglio con fare dilettantesco, che sarà foriero di nefaste conseguenze per un’Italia, che si ritroverà di fatto allo sbando, preda dell’esercito occupante tedesco.
In questo caos dove non c’è più alcun ordine, Cesare (Vittorio Duse), un soldato sbandato che ha appena fatto ritorno al suo paesino, non vuole più saperne della guerra, rappresentando in tal modo l’ottusità di tanti italiani di quel periodo, miranti solo a coltivare il loro piccolo orticello, senza alzare il proprio sguardo oltre i propri ristretti orizzonti. L’inaspettata e veloce occupazione tedesca, sarà una doccia gelata, che poterà bruscamente tutti alla realtà delle cose, dovendo decidere da che parte stare; con i nazi-fascisti, oppure con il neo-nato movimento partigiano, che cerca di reclutare uomini ed andare sulle montagne, per sfuggire alle rappresaglie del nemico, più forte ed organizzato.


Vergano si mostra schietto e diretto negli schemi e nelle contrapposizioni tra le due fazioni in campo, a cui Cesare è subordinato nel suo amore tra la sarta Laura (Lea Padovani) ed il suo essere divenuto amante di Matilde (Elli Parvo), ricca proprietaria terriera, a cui non riesce a resistere. Bene contro male, coscienza civile contro connivenza con i nazisti ed infine lotta di classe; popolo (pro-resistenza) contro padroni ed aristocratici (pro-nazi-fascisti).
Questa forte discrasia, necessaria sia per il contesto dell’epoca sia dal punto di vista etico-morale, finisce con il far risultare al giorno d’oggi irrimediabilmente invecchiata, una pellicola, che pur lodevolmente vuole sfatare certe falsità, presenti pur in capolavori come “Roma Città Aperta”, non ha la forza artistico-concettuale della pellicola rosselliniana, che traeva forza non da schematismi narrativi su cui imbastire lo scontro tra partigiani e tedeschi, ma sul lavorio nel conferire estrema schiettezza e vivacità ai suoi personaggi divenuti tutti iconici.
Il dilemma di Cesare non è sentito mai dal personaggio, in quanto tutto riversato sulle due donne a cui è conteso; l’incertezza se seguire gli altri uomini del paese in montagna, oppure starsene al caldo e al sicuro in paese (come gli suggerisce di fare anche suo fratello Mario, meschino e connivente con gli occupanti), viene declinata in un melodramma dagli spunti fiacchi, velocemente risolti poi a metà film, più perché la produzione richiedeva precise direttive, che da una costruzione filmica coerente.
Se la sequenza dell’immolazione di Don Camillo, seppur probabilmente raggiunga i picchi di emotivi di maggiore intensità della pellicola, perde irrimediabilmente il confronto con la figura di Aldo Fabrizi a cui vorrebbe rifarsi, la crudeltà dei nazisti, capitanati da Heinrich (Massimo Serato), viene anestetizzata in un eccesso caricaturale di compiaciuta crudeltà, che sfocia in un un sincero terrore, solamente quando il folle credo del maggiore, trova sfogo in carro trainato forsennatamente, mentre gira continuamente in tondo, nell'atto di voler cercare di centrare con la sua pistola, i due malcapitati bersagli legati ad un palo al centro della piazzetta del borgo; vicenda rivestista di un chiaro simbolismo pagano anti-cristiano, richiamato dal pangermanesimo a cui si rifaceva la dottrina nazista. 

Apprezzabile tentativo di voler svolgere un’analisi sulla percezione della resistenza più possibile veritiera (seppur appena in stato embrionale), il focus d’indagine però, risulta essere eccessivamente subordinato ad una risoluzione morale (chi è stato con i tedeschi farà ovviamente una brutta fine), limitante e ristretto; come l’ambientazione della vicenda, sempre incentrata nella location del piccolo paesino, dal quale non ci si muove mai, una lente d’ingrandimento che seppur cominci a sfatare certe falsità storiche che ha limitato artisticamente nel tempo, un’opera, il cui scopo era principalmente elogiare la libertà appena ottenuta, celebrando giustamente, coloro che hanno dato la vita per tale scopo.  

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