Regia di Bertrand Bonello vedi scheda film
Il tempo in cui viviamo, sembra dirci Bonello, è caratterizzato da una ridefinizione dell'essere umano e della realtà che lo circonda, una realtà così fluida da perdere completamente ogni punto di riferimento.
L'ennesima meraviglia estetica di Bertrand Bonello è un'opera in cui il regista francese riesce, con la sua solita maestria (oggi uno dei pochissimi a farlo), a muoversi tra narrazione e contemplazione, coniugando la capacità di coinvolgere lo spettatore con particolarissime e complesse costruzioni spazio-temporali e colpi di scena, a un'estrema sensibilità nel conferire agli oggetti e ai personaggi all'interno dell'inquadratura un'intensità che ha dell'incredibile. La prima scena del film vede Gabrielle (Léa Seydoux) muoversi davanti a un green screen, mentre il suo "personaggio" riceve istruzioni sull'anticipare l'arrivo di una misteriosa forza malevola (una "bestia") urlando. All'urlo di Gabrielle segue la frantumazione della propria immagine in una poltiglia di pixel.
La storia del film riguarda due personaggi che sembrano definire la propria vita in base alla paura di un'incombente e oscura catastrofe, la quale cambia forma in base ai periodi storici che si susseguono e si intrecciano all'interno del racconto. Il primo periodo, ambientato nel 1910, ha il tono del romanzo storico, in cui i due protagonisti, l'uomo e la donna, sembrano legati da un profondo desiderio, contrastando nettamente con il violento incel del 2014. Il terzo periodo, ambientato nel 2044, è quello formalmente più asettico, soffocante e meno definibile (anche grazie all'utilizzo del formato quadrato).
A voler definire un film così sfuggente, si potrebbe dire che La Bête sia un dramma futuristico-fantascientifico-romantico incline al melò e all'horror, ma ciò significherebbe dipingerne un quadro incompleto. il film ha inizio nel futuro, in un distopico e sterile 2044, dove le emozioni umane sono considerate negative, poiché la nostra tendenza a essere guidati dal cuore anziché dalla distaccata logica renderebbe la nostra specie inutile. Molti hanno allora subito un processo di purificazione, entrando nelle loro vite passate attraverso l'immersione in un bagno di liquido nero e appiccicoso, nella speranza di liberarsi dalle proprie emozioni. Gabrielle (Léa Seydoux) si sottopone a questo processo; noi la seguiamo attraverso tre linee temporali differenti, in ognuna delle quali incontra una variante di Louis (George MacKay). Il problema per Gabrielle, tuttavia, è che la procedura non sembra funzionare. Basato sul racconto di Henry James "The Beast in the Jungle", in cui il personaggio principale definisce la propria vita in base alla paura di una catastrofe imminente —una sorta di bestia che lo attende da qualche parte —l'adattamento di Bonello eleva il materiale originale a nuovi livelli. Nel suo attraversare epoche differenti, intrecciando linee temporali e temi, e nella sua durata di 145 minuti, Bonello riesce quasi a realizzare un'opera epica, sorprendendo per la capacità, nonostante la complessità del racconto, di mantenere una certa coesione e coerenza. Riprende i temi del terrore esistenziale e della solitudine presenti nel racconto di James e li inserisce in un vorticoso, inebriante mix di passato, presente e futuro, conferendo al film un aspetto sia profondamente classico che sorprendentemente contemporaneo.
Le storie si costruiscono all'interno di altre storie, mentre la fluvialità del ricordo e delle vite passate ci trascina su sentieri sempre più spaventosi. La costante è, appunto, quella dell'angoscia e della paura, che assume forme differenti a seconda del tempo in cui il film ci conduce. Ma l'intelligenza artificiale in The Beast non si presenta solo come un espediente narrativo, ma anche come una riflessione profonda sul legame eterno e inappagato che unisce i due protagonisti attraverso i secoli. Questo legame sembra evocare la presenza di una memoria sintetica simile a quella di Blade Runner, dove l'identità e la coscienza si configurano come plasmi di ricordi impiantati. Bonello crea un mosaico di influenze cinematografiche: da Alain Resnais a Chris Marker, fino alla complessità onirica del Lynch di Mulholland Drive e Inland Empire.
Così, tra favola e filosofia, La Bête esplora, come si diceva poc'anzi, l'universalità della paura della morte, della paranoia e dell'angoscia, evidenziandone la natura multidimensionale. L'esondazione della Senna nella Parigi del 1910, il terremoto di Los Angeles nel 2014 o l'incendio in una fabbrica di bambole: ogni vita incarnata da Gabrielle rappresenta una battaglia culturale continua tra ricche forme espressive e desolazione emotiva. La danza di corteggiamenti in costume si contrappone alle bambole dall’aspetto uniformemente inespressivo, mentre le pressioni sociali si riflettono nei ricorsi alla chirurgia estetica. Ciò che rimane costante è la tendenza di Gabrielle verso la neutralità emotiva e la paura di esporsi alla vulnerabilità, costantemente soffocata, come un filo conduttore di tensioni che scatenano ogni tragedia scenica. Bonello articola questa parabola giocando sugli estremi, navigando da un presente ricco di conflitti emotivi a un futuro in cui le parti irrisolte dell’identità possono essere eliminate senza lasciare traccia, suggerendo la tendenza verso una totale anestetizzazione dell'essere umano.
Lungo questo arco narrativo, La Bête esplora i limiti dell’umano e le sue resistenze, evidenziando la fragile linea tra la connessione emotiva e la desolazione tecnologica. Gabrielle, infatti, si muove come fosse un'esploratrice di spazi museificati, di ambienti internet e di design minimalista, ma le ansie legate alla propria dimensione sentimentale risultano sempre le stesse e sono ricorrenti di epoca in epoca, costruite attraverso soluzioni che destabilizzano costantemente l'immagine tra jump-cut, pixellizzazioni, split-screen e soggettive meccaniche, seguendola attraverso il suo percorso di emancipazione emotiva.Il cuore pulsante di questo discorso sembra essere proprio quello che ha mosso tutto il cinema del regista francese fino ad ora: l'esperienza di disorientamento data dall'indefinibilità dell'immagine, che oggi può davvero essere o diventare qualsiasi cosa, e contenere in sé molteplici istanze e pericoli, senza che vi siano appigli sicuri. Le dinamiche di La Bête, allora, non conducono mai a una soluzione o a una conclusione; non forniscono mai risposte chiare, ma al massimo moltiplicano gli interrogativi, facendo permanere l'ansia e la confusione. In definitiva, l'estrema circolarità dell'ultimo film di Bonello sottolinea l'inesorabile ricorsività delle relazioni e il peso del passato emotivo, invitando lo spettatore a riflettere su come, nonostante le variazioni esterne, le esperienze interiori rimangano spesso bloccate in schemi invariati. Questa incapacità di evolvere suggerisce forse una profonda critica al modo in cui la società affronta le dinamiche relazionali, rimanendo intrappolata in un ciclo di reiterate insoddisfazioni e attese.
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