Regia di Matt Brown vedi scheda film
Un serissimo film filosofico. Onesto: non banalizza nulla, ma restituisce i pregi così come anche tutti i limiti della figura di Freud.
Per nulla commerciale: effettivamente non semplice da cogliere in tutti i passaggi, resta comunque divulgativo al punto giusto, senza mai tradire la complessità della materia che tratta.
Complessità che è del massimo livello: la religione; l’inconscio; il sogno; l’apparente (e reale, per Freud e non solo) irrazionalità delle nostre scelte di fondo; l’importanza della sfera sessuale; il rapporto edipico con i genitori del sesso opposto; l’omosessualità; la psicoterapia; i problemi del transfert, e dell'infatuamento verso le figure che si prendono cura di noi; la memoria dei traumi, dell'infanzia...
Il tutto all’interno ella storia effettivamente vissuta da Freud medesimo: l’amore verso di lui che lui stesso ha fomentato nella figlia – da buon arrogante qual era -, impedendole, finché ha potuto, ogni forma di legame sentimentale che fosse con una persona diversa da lui medesimo.
Una contraddizione, reale e terribile, che fa il paio con tante altre: il medico/pensatore non permette ad altri di fare le stesse domande, e di usare la stessa impertinenza e arroganza, che lui si permette di usare con altri. Urla quando l’antagonista lo mette in difficoltà con i modi con cui lui stesso (in modo ben più fastidioso) cerca di mettere in difficoltà il suo interlocutore, e tutti.
Ma meravigliosa è anche l’interpretazione che Freud dà della propria disciplina, che lui stesso ha fondato: la psicoanalisi serve (anche) a togliere ogni pregiudizio, ogni tabù nella comunicazione, al fine innanzitutto di seguire la verità, per sé stessi in primo luogo. L’approccio scientifico è così garantito; ma non al fine di seguire una verità che (inventando) esisterebbe prima e al di là di ogni intervento umano; ma al fine di permettere, legittimamente, di conoscere ogni causa di dolore agli esseri umani, con grande compassione umana, appunto.
La teodicea qui è snocciolata in modo corretto e fruibile. Il vero protagonista infatti è Dio: nell’insostenibilità della provvidenza, dati tutti i mali che storicamente e ingiustificabilmente Dio avrebbe permesso al mondo – anche tantissimi tra i più spaventosi - Ma anche nella speranza, mai del tutto reprimibile, che un dio . come successo per tanti individui - possa effettivamente dare un senso più positivo che negativo a tanto dolore.
Il tutto giocato all’interno del fascino della conversazione, privata e franca, fra due geni: oltre all’immenso psicologo moravo, non sfigura l’autore della Cronache di Narnia, cristiano integralista e grande amico di Tolkien, C.S.Lewis. Colto benissimo anche in un contesto fondamentale per l’epoca: i reduci della prima guerra mondiale. Contesto importante a maggior ragione nel settembre ’39, quando un’altra immane tragedia bellica si stava per schiantare sull’Europa in particolare.
Pur in un film teatrale, quasi tutto di dialoghi – e pure assai impegnativi – il regista Matt Brown crea un’opera di ritmo, appassionante. Profondamente umana. Arricchita da scenografie e fotografia impeccabili. E da un Anthony Hopkins perfetto, a 86 anni, in una parte difficilissima.
Peccato che di questo film la critica non abbia visto a sufficienza quanto di buono meritava. Ma quando si parla di libertà mentale e di importanza della dimensione sessuale, non stupisce che, soprattutto in Italia, i pregiudizi abbiano la meglio sul merito.
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