Regia di David Miller vedi scheda film
Una grande Joan Crawford.
Capovolgimento delle situazioni, scambio dei ruoli, illeggibilità dei personaggi: è tutto molto hitchcockiano in questo tenebroso noir del 1952. Piccola parentesi: le dinamiche del film sarebbero state ancor più di effetto senza la solita traduzione-spoiler all'italiana del titolo, la quale, per restare in tema Hitchcock, rovinò parzialmente anche La donna che visse due volte. Domanda delle cento pistole: che cosa costava mantenere il titolo originale? Ahimè per molto tempo in Italia siamo vissuti su questa mentalità deteriore dell'incentrare tanto dello sforzo pubblicitario sul titolo: gli spaghetti western, con i loro titoli altisonanti (uccidi questo, è finita per quest'altro, sangue, violenza, vendetta e chi più ne ha più ne metta) sono una sufficiente dimostrazione di questo fenomeno nostrano. Quindi l'imbuto in cui Sudden Fear si va ad immettere, comunque intuibile a vicenda sviluppata, è chiaro al malcapitato spettatore italico fin dalle prime sequenze: l'autoritaria autrice letteraria Myra Hudson (una grande Joan Crawford) scarta il pur bravo attore Lester Blaine per la parte di protagonista della trasposizione teatrale della sua opera. In un modo o nell'altro, sappiamo che Blaine vorrà prendersi la sua giusta vendetta. Quella della donna difficile, impenetrabile, altera, è parte che tanto si addice alla Crawford; tuttavia l'attrice sapientemente la tempera nella parte mediana dell'opera, lasciandosi sedurre e impalmare proprio dall'uomo cui ha negato inspiegabilmente il ruolo a inizio film. La simpatia e la comprensione che istintivamente provavamo per Blaine si spostano verso la donna che sempre più temiamo possa cadere vittima di un complotto ai suoi danni. Viceversa, il miserrimo Blaine, lo spiantato Blaine, il timido Blaine impugna ora il coltello dalla parte del manico: ha la Crawford ai suoi piedi. Non gli resta che spennarla. E qui abbiamo il punto di svolta del film, che si serve a piene mani del meccanismo della suspense hitchcockiana: Myra ascolta fortunosamente una registrazione dei due amanti (Blaine e la giovane Irene), che stabiliscono di farla fuori entro 3 giorni per impadronirsi della sua eredità. Due variabili di opposto segno rendono dunque vorticosa e imprevedibile la parte conclusiva: il fattore tempo, cioè le lancette dell'orologio che instancabilmente congiurano contro Myra; ma anche il fattore conoscenza, Myra sa che hanno intenzione di ucciderla, mentre loro non sanno che lei sa. Myra si trova nella condizione comune a tante donne hitchcockiane, di pericolo incombente senza avere l'esperienza sufficiente per uscirne vincitrice (e soprattutto, viva). Difatti elabora sì un grande piano per fare fuori sia Blaine sia la ragazza: ma di fronte alla prospettiva reale di dover schiacciare il grilletto per uccidere l'uomo un tempo tanto amato, non ha il coraggio di portare a termine il suo proposito. Una sorta di giustizia superiore, beffarda eppur incontestabile, la premia: perché Blaine investe Irene credendola Myra, e Myra, con un beau geste imprevedibile, si permette anche il lusso di provare ad avvertirlo del fatale errore. Non è quindi Myra che risolve la situazione in proprio favore, ma il destino, che le lascia in eredità una rinnovata dignità, zero rimorsi per il futuro, ed anche una punta di rimpianto, per quello che poteva essere e non è stato. Myra getta via il suo foulard, all'indietro, e il foulard scappa via veloce come il suo passato, trasportato dall'acqua insalubre delle fognature, sporca come il suo matrimonio fallito; ma lo fa con un pianto che non può arrestare.
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