Regia di Fabio Grassadonia, Antonio Piazza vedi scheda film
Grottesco, un po’ troppo. Barocco, un po’ troppo. A chi scrive, peraltro queste caratteristiche piacciono; e quanto ce ne vorrebbe, se ben gestito, per rimediare all’appiattimento commerciale dell’unico pensiero imposto. Ma qui eccedono.
Specialmente: nel perdersi in vari dettagli, e rivoli narrativi, non sempre cosi significativi; nell’esibire una dialettica verbosa, tra (nel senso deteriore del termine) il filosofico e il mediterraneo, che sa troppo – e soprattutto ne sa in modo artificioso – di ostentazione gratuita, fine a se stessa; una recitazione troppo spinta, asiana, probabilmente più per richiesta dei registi che non per inclinazione degli attori medesimi. Questa estenuazione nuoce soprattutto alle parti – degli inquirenti - di Russo Alesi e della Marra.
I due registi Piazza e Grassadonia, dei quali avevo apprezzato enormemente l’altro film di mafia, Sicilian ghost story del ’17 – anch’esso onirico, suggestivo e allusivo come in parte questo – qui invece peccano proprio nella sceneggiatura: un po’ troppo pretenziosa, come se quei criminali fossero tutti davvero degli intellettuali. Del resto, va però dato loro atto di aver messo in scena qualcosa di vero: le “lettere a Svetonio” da cui hanno preso spunto, sono piene di riferimenti culturali, filosofici, esistenziali da parte di un capomafia di primissimo livello come Matteo Messina Denaro. Il film mostra tali stranezze, anche se avrebbe potuto integrarle in una narrazione più asciutta, e dunque capace di sfruttare al massimo l’ossimoro vivente che tale boss ha rappresentato, così come mostra la sua – storicamente accaduta – comunicazione epistolare con il protagonista, un classico politico di potere del sud, ultra-corrotto e amico dei criminali, nonché loro servo per essenza, vocazione e ovviamente, soprattutto, interesse.
Ma veniamo ai pregi: non pochi.
Il cast, corale, è impreziosito da due giganti come Servillo e Germano. Il primo poi è strepitoso, in una parte tipica delle sue: del criminale meridionale, intelligente, ammorbato dai sensi di colpa, triste.
Poi il soggetto vanta meriti chiari: la denuncia storica di un fatto chiarissimo, come la dipendenza, al sud, della maggioranza dei politici al governo – locale, ma non solo – dai mafiosi. Gli appalti pubblici come manna dal cielo, per poterli sfruttare male, contro l’interesse pubblico; ma sempre un toccasana per i mafiosi stessi, che finiscono per controllarli tutti, in modo scientifico, senza lasciare le briciole a nessuno che non sia disonesto come loro (lasciandone invece i resti solo ai disonesti che fanno affari con loro, ma ai loro interessi). Inoltre, una latitanza così lunga e agiata mai sarebbe potuta succedere in un paese normale: infatti in Italia è accaduta, proprio per gli appoggi esterni, che innanzitutto sono stati - e sono - di politici collusi, di duratura, comprovata e affidabilissima corruzione.
Poi l’elogio della disonestà, elevato da un capomafia universale: così inverosimile, ma così storicamente verosimile. Infatti, nella loro accezione, il disonesto è colui che non rispetta i patti. Che poi siano patti che rafforzano il delitto, e dunque la violenza contro l’uguaglianza di diritti: questo è l’aspetto saliente.
Infine l’elogio dell’intelligenza nel senso che più frequentemente è stato celebrato nel Mezzogiorno: un individualismo che sia tanto efficiente quanto più possibile dissimulato. Un’intelligenza profondamente immorale, che comunque al sud (ma non solo) è ancora assai frequente: e che serve soprattutto per fare la carriera politica. Carriera che significa: delinquere - se ciò comporta dei vantaggi personali che non si avrebbero affatto senza delinquere – riuscendo a garantirsi nel contempo il massimo dell’impunità possibile. Ovvero la distruzione di ogni significato positivo della politica, inteso nell’unica accezione possibile, ovvero la promozione del bene di tutti. In tale sciente distruzione, il grosso della storia italiana, dunque.
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