Regia di Quentin Dupieux vedi scheda film
In un teatrino parigino di periferia va in scena una commedia, Il cornuto (Le cocu). Il ritmo è basso, la trama banale, le battute latitano e lo scarso pubblico subisce in silenzio. Fin quando Yannick, guardiano notturno che ha preso una sera libera per svagarsi, si alza in piedi lamentando la bassa qualità della rappresentazione. Gli attori cominciano a provocarlo e Yannick estrae una pistola: la serata degenera.
Con Quentin Dupieux, regista prolifico amante del surreale e delle storie spiazzanti, non è difficile sapere cosa attendersi, non è nemmeno impossibile: è inutile farlo, semplicemente. Qualsiasi aspettativa risulterà sempre vana, tanta e tale è la fantasia delle soluzioni adottate dal cineasta francese, anche sceneggiatore di questo lavoro. Yannick è la sua ottava pellicola nell'arco di circa sei anni, tutti lavori della durata limitata a 75-80 minuti, e in questo caso ristretta ulteriormente fino a un'ora e sette minuti, lunghissimi titoli di coda inclusi. Ma per quale motivo Dupieux si è convinto a fermare la distribuzione di Daaaaaalì! (girato precedentemente) per partire con una promozione intensa di Yannick? Presumibilmente perché quest'ultimo, più lineare come trama e dunque più abbordabile per il grande pubblico, aveva le potenzialità per approdare in sala e ottenere un consenso popolare a livello internazionale – viene da immaginare. Anche se Yannick, a conti fatti, è uscito in maniera ben poco organizzata dalle nostre parti e non ha riscosso fin qui apprezzamenti degni di nota dal pubblico o dalla critica, occorre aggiungere. Si tratta in effetti di un kammerspiel metacinematografico nel quale buoni e cattivi si mescolano continuamente, un film senz'altro statico e basato sulle emozioni, nel quale la recitazione degli interpreti la fa da padrone (e i complimenti doverosi vanno fatti a Raphael Quenard, Blanche Gardin, Pio Marmai e Sebastien Chassagne); un film cervellotico, indegno di quel sottotitolo imbecille affibbiatogli dalla distribuzione italiana ('la rivincita dello spettatore', che neppure avviene) e ricco di spunti di riflessione. Uno su tutti: Yannick è il buono o il cattivo della storia? È un villain dai sentimenti puri, talmente stupido e ignorante da non suscitare odio – non più di tanto – nei suoi confronti; semmai pietà. E la sua ingenua impostazione del mondo, manichea oltre ogni dire e impregnata di un dunningkrugerismo (quando i ritardati si sentono geni, insomma) da social network contemporaneo, non potrà mai trionfare, lo sappiamo bene fin dall'inizio: perché Yannick è un povero scemo, lo scemo del villaggio che ha saputo però portare dalla sua parte il pubblico un po' con del bieco terrorismo e un po' con dell'insano populismo chiacchierone. Hm, forse la metafora è più profonda di quanto sembri a una prima occhiata? Una visione del film potrebbe chiarire tanti dubbi – o, più facilmente, crearne di nuovi. 6,5/10.
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