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Do Not Expect Too Much from the End of the World

Regia di Radu Jude vedi scheda film

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La recensione su Do Not Expect Too Much from the End of the World

di alan smithee
8 stelle

locandina

Do Not Expect Too Much from the End of the World (2023): locandina

FESTIVAL DI LOCARNO 2023-CONCORSO-PREMIO SPECIALE DELAL GIURIA / CINEMA OLTRECONFINE
Più di quarant'anni separano il peregrinare in auto della tassista Angela che, nella Bucarest di Ceausescu sfrecciava solare tra le strade decisamente poco affollate di traffico di una capitale solo apparentemente tranquilla in quanto oppressa da una dittatura senza sé e senza ma, ed i viaggi frenetici compiuti nella Bucarest odierna, affollata e caotica, da quella Angela blogger protagonista dell'ultimo film di Radu Jude.
Un film surreale sin dal titolo, che suona anche un pizzico provocatorio, e che si può tradurre con il laconico "Non aspettatevi molto di più dalla fine del mondo".
La attuale Angela (una ottima Ilinca Manolache), biondina discinta, tatuata, un po' volgare nel modo di manifestarsi agli altri e costantemente on line sui social ove posta filmati travestita da uomo per mezzo di un avatar inquietante, baffuto e pelato attraverso cui porta avanti commenti satirici e sboccati sulla vita che la sta annientando velocemente, fa l'assistente di produzione freelance, ovvero senza contratti, alla spasmodica ricerca di casting adeguati alle aziende che le commissionano di volta in volta qualche incarico.
Ora la donna è impegnata a cercare persone adatte a girare uno spot improntato a porre l'attenzione del pubblico sulla latente sicurezza nel lavoro, e la sua ricerca la spinge a girare in macchina attraverso le caotiche arterie di una capitale esagitata ed in costante fermento.
La ragazza, dopo una lunga serie di vicissitudini e di esperienze, anche sessuali, vissute in fretta e nella quasi completa assenza di emozioni che non siano istinti vitali, troverà del dolce Ovidio, nientemeno che figlio della omonima Angela tassista del film del 1981 (Angela merge mai departe, 1981, di Lucian Bratu) che Jude inserisce nella prima parte del film, l'individuo adatto per portare a termine uno spot che si rivelerà, una volta modificato nella sua originaria ragion d'essere, come una testimonianza addomesticata e falsata, in linea con le linee guida di una società che, dopo oltre quarant'anni dalla dittatura, ha trovato nel capitalismo quelle regole non meno svianti e false che allora caratterizzavano l'essenza del regime.
Una Angela che lotta per emergere e per apparire, ma poi si piega alle esigenze a alle opportunità delle solite grandi aziende, questa volta rappresentate da una manager distratta e superficiale (interpretata dalla celebre attrice tedesca Nina Hoss), nel film una lontana discendente di Goethe che ammette candidamente di non conoscere quasi nulla dell'opera del proprio celebre antenato. 
Radu Jude, col suo bianco e nero sporco a cui alterna il colore candido delle scene estratte dal vecchio film del 1981, sfodera tutta la sua verve sarcastica per mettere a confronto due mondi distanti ben più di un quarantennio che in realtà li separa, ma anche molto simili nella necessità che la società odierna, frenetica e mossa solo da intenti speculativi e capitalistici, manifesta in modo inequivocabile ad ogni occasione.
E del problema di una più adeguata sicurezza sul lavoro rimangono solo perpetue ed immobili, pur consunte anch'esse dal tempo che scorre, le lapidi dei molti lavoratori vittime di incidenti mortali, anime sacrificali di un processo di crescita virtuale che il capitalismo moderno e la smania commerciale di vendere servizi, più che materialità, finisce per lasciarsi dietro.
Un film che nelle sue quasi tre ore di lunghezza riesce a trasformarsi, poco per volta, in qualcosa di dirompente, fino a quell'interminabile piano sequenza della ripresa dello spot che ricollega il cinema più attuale di Radu Jude al suo notevole film degli esordi The happiest girl in the world (2009), un titolo non meno sarcastico di questo suo ultimo film, e che appare molto in linea con la tendenza del regista a provare come minimo un senso di disagio di fronte all'afflato consumista e allo svuotamento di contenuti che il progresso spasmodico del vivere quotidiano comunica e suggerisce come soluzione utile per cavalcare l'onda del successo, conquistando visibilità e consensi.
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