Regia di Luis Buñuel vedi scheda film
Uno dei film più affascinanti di Buñuel in cui il regista, con mano lieve ed ironica, affronta argomenti di grande spessore come i dilemmi fra vita ascetica e vita quotidiana, fra peccato e redenzione, e, soprattutto, sull’utilità dell’adesione acritica alla pratica religiosa.
Ho visto Simon del deserto al cinema qualche decennio fa (insieme ad un metrometraggio americano di cui ho perso il ricordo) e da alloro l’ho considerato uno dei film più belli ed interessanti di Buñuel ed uno dei miei preferiti che rivedo spesso, merito anche dello stupendo bianconero del grande Gabriel Figueroa e dell’eccellente recitazione di Claudio Brook e di Silvia Pinal.
La semplicità del soggetto (uno stilita sottoposto a tentazioni demoniache) è arricchita da simbolismi e metafore: in particolare è evidente il significato del vivere sopra una colonna come metafora del volersi elevare al disopra della realtà terrena degli uomini comuni, rafforzata dalle frequenti inquadrature dal basso di Simon sullo sfondo del cielo per significare il suo tentativo di raggiungere una purezza celeste.
Simon appare come un asceta quasi disincarnato, del tutto estraneo alla realtà della vita quotidiana ed agli affetti familiari (quasi rinnega la madre ed accondiscende a fatica a permetterle di vivere presso la colonna!) che non riesce a comprendere. Il diavolo è rappresentato più come portatore di istanze vitali, di azione, di ricerca del piacere che come male assoluto soprannaturale: anche le tentazioni riguardano aspetti terreni e carnali (soprattutto sessuali) che metafisici.
Ritengo che il senso del film ed il giudizio del regista, di critica alla borghesia per la sua ricerca del successo economico e del benessere individuale e sull’inutilità delle pratiche religiose avulse dalla vita quotidiana, siano ben espressi nel dialogo tra Simon e il frate che lo raggiunge sulla colonna:
“Gli uomini si perdono sempre in lotte fratricide e sempre per la maledizione del tuo e del mio.”
“Di che parli?”
“Perché l’uomo uccide per difendere quello che crede suo.”
…
“Il tuo disinteresse è ammirevole e molto utile alla tua anima, ma ho paura che con la tua penitenza serva ben poco all’uomo.”
Il tema della pratica costante e meticolosa della rinuncia a sé e della bontà era già stato affrontato da Buñuel
in Nazarìn di cui era analizzata con spietatezza la loro inutilità anzi, il loro essere spesso controproducenti.
Il finale vede Simon e il diavolo proiettati nei tempi attuali, in una discoteca di New York dove Simon appare come un intellettuale disilluso e un po’ smarrito e il diavolo come una ragazza desiderosa di divertirsi sfrenatamente: i due protagonisti hanno perso la propria emblematicità e sono ormai inseriti nella superficiale e futile vita quotidiana
È noto che il progetto originale del film fosse di durata più che doppia, ma che le difficoltà economiche (il produttore Alatriste, all’epoca marito di Silvia Pinal, aveva troncato i finanziamenti) costrinsero il regista a troncare prematuramente la trama in cui la parte non girata “… avrebbe dovuto mostrare come il diavolo tornasse indietro per sostituirsi a Simon, e portare al <male> i fedeli.” (da Wikipedia). Ritengo, tuttavia, che il film non soffra della riduzione dell’intreccio, anzi la sua icasticità lo rende molto incisivo ed efficace.
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