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Simon del deserto

Regia di Luis Buñuel vedi scheda film

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La recensione su Simon del deserto

di (spopola) 1726792
10 stelle

Una pellicola perfettamente compiuta ascetica nella forma, quanto sulfurea nei contenuti, attraversata com’è da sotterranee blasfemie religiose che oltre a farne uno dei più corposi e inquietanti risultati in assoluto, è praticamente anche l’ultima fra quelle girate da Buñuel in gravissima penuria di finanziamenti .

“Sono sempre stato ateo, grazie a Dio” (…)
“credo che  occorra cercare Dio nell’uomo, è un atteggiamento semplicissimo”. (Luis Buñuel)
 
Simon del deserto è del 1965: si pone dunque subito dopo Il diario di una cameriera e precede di due anni l’exploit internazionale di  Bella di giorno, rifiutato da Cannes per insufficienza artistica (quando si dice la miopia dei selezionatori!!!!), ma fortunatamente - e giustamente  - “recuperato” per la Mostra del Cinema di Venezia, dove si aggiudicò un meritatissimo Leone d’oro.
Mi sembra importante collocarlo proprio storicamente, perché è un’opera  certamente di “passaggio” (si concluderà infatti con questo titolo il  periodo “messicano”del regista) che prelude ai magnifici risultati della sua maturità artistica. Intendiamoci subito però: “passaggio” non significa assolutamente che ci troviamo di fronte a un’opera “minore”, tutt’altro! La trasparenza della forma, la limpidità dell’aneddoto, la densità dei temi trattati, sono tutti elementi che lo rendono uno dei traguardi più stimolanti, interessanti e problematici: grande è la  ricchezza fantastica e grottesca del suo incedere, così come la freschezza (anche innovativa) del suo linguaggio che non possono assolutamente alludere a una ipotetica “secondarietà”, in un carnet davvero stracolmo di indimenticabili capolavori. Di “passaggio” allora, semplicemente perchè  è quella che fa da “ponte” fra due periodi (e che nella sua secchezza, compendia  e sintetizza come meglio non sarebbe possibile,  le qualità  e i “modelli” creativi e ideologici del regista). L’opera quindi che conclude  un ciclo (che comprende titoli come Nazarin, L’angelo sterminatore e  Viridiana), ma che è anche una nuova, straordinaria conferma del prepotente  ritorno di Buñuel alle radici surrealiste della sua ispirazione, e che al contempo, preannuncia però anche l’ avvento di un nuovo “stimolante percorso creativo” (il film che racconta una ulteriore “variazione”  sulla  problematica dell’inutilità della fede gia presente in Nazarin, anticipa  alcune tematiche che ritroveremo, amplificate e “concretizzate”, ne La via lattea del 1968).
Una pellicola insomma ancora una volta perfettamente compiuta (nonostante tutto, come vedremo in seguito) nel suo essere tanto “ascetica”, quasi francescana nella forma, quanto sulfurea nei contenuti, come al solito attraversati da sotterranee “blasfemie” religiose che oltre a farne uno dei più corposi e inquietanti risultati in assoluto, è praticamente anche l’ultima fra quelle da lui girate  in gravissima penuria di finanziamenti (il produttore Gustavo Alatriste, reo di aver ritirato i capitali che impedirono di portare a termine la “esatta e completa” definizione dell’opera, si pentì poi amaramente, ma troppo tardi, della sua vista corta  e tentò in tutti i modi di “farla rigirare” nella sua completezza proponendola con singolarissimo e inutile  “azzardo” – perché tutti giustamente rifiutarono l’impresa e il cimento -  a registi del calibro di  Kawalerowicz, Rocha, Truffaut, Bellocchio e persino Kubrick). Degli undici rulli previsti, Buñuel ne poté completare infatti solo 5 e fu poi costretto ad arrangiarsi per inventarsi un finale, messo praticamente  in piedi in una sola nottata, che forse per questo motivo arriva in maniera un po’ precipitosa, ma senza che  ciò riesca a togliere smalto al risultato, tanto è vero che nemmeno la limitata lunghezza da mediometraggio che ci rimane, impedirono al film di aggiudicarsi a Venezia il prestigioso premio speciale della giuria. Come sappiamo, l’imprevisto successo di cassetta che arriderà  a Bella di giorno,  gli consentirà poi, fortunatamente, di lavorare  con una maggiore “autonomia” anche  sotto il profilo economico (ma  riguardo ai rapporti con i produttori e il mercato, mi sembra importante riportare le dirette parole del regista che esprimono perfettamente il suo pensiero rispetto alla “mercificazione dell’arte” e indicano  chiaramente anche che cosa significava per lui “fare cinema”):
Ho sempre fatto film commissionati dai produttori  ad eccezione dei miei primi tre. Ne ho fatti anche di brutti, ma sempre moralmente degni, sempre seguendo il  mio precetto che trae origine dal surrealismo. La necessità di mangiare non scusa né giustifica la prostituzione dell’arte. Sono contro la morale convenzionale, i fantasmi tradizionali, il sentimentalismo, tutto il luridume morale della società. La morale borghese è per me l’anti-morale, perché fondata  su tre istituzioni ingiustissime: la religione, la patria, la famiglia, oltre che su altri simili pilastri analogamente deprecabili (…) Basterebbe che la palpebra bianca dello schermo potesse riflettere la luce che gli è propria per far saltare l’universo, ma per il momento possiamo dormire sonni tranquilli, perché la luce cinematografica è purtroppo dosata e incatenata a dovere da chi tiene serrati i cordoni della borsa. (…) Il cinema è un’arma magnifica e pericolosa, se a maneggiarla è uno spirito libero. E’ lo strumento migliore  per esprimere il mondo dei sogni, delle emozioni, degli istinti. Lo si direbbe inventato per esprimere la via del subconscio, le cui radici penetrano così profondamente nella poesia. Non si creda però che io sia partigiano di un cinema fondato esclusivamente sul fantastico, sul mistero o anche semplicemente sul surreale (…) Perché io chiedo al cinema di essere anche un testimone, di diventare il resoconto del mondo, colui che dice tutto ciò che è importante nel reale. La realtà è molteplice e può avere mille significati differenti per uomini differenti. Io voglio avere una visione integrale della realtà, ma voglio anche entrare nel mondo meraviglioso dell’ignoto (…) Il dramma privato di un individuo non può secondo me, interessare nessuno che sia degno di vivere nel suo tempo. Se lo spettatore divide le gioie, le tristezze , le angosce  di un personaggio dello schermo, ciò può avvenire solo quando ci vede il riflesso delle gioie , delle tristezze, delle angosce di tutta la società; e dunque le sue stesse.
 
Tornando al film in questione, questo pamphlet sceneggiato dal regista con la collaborazione di Julio Alejandro, riprende un soggetto immaginato in gioventù (come è facile comprendere proprio dallo stile surrealista con cui è costruita la vicenda). Pare infatti che la storia di questo monaco stilita (vissuto in Siria  nel V° secolo dopo Cristo) avesse colpito Buñuel quando il regista frequentava l’università e molte delle  conversazioni fra lui e  i suoi amici, convergevano “intorno agli inconvenienti che derivavano dal vivere in cima a una colonna”.
E’ certamente anche questo un altro basilare elemento da tenere  in evidenza, perché ci riporta direttamente alle radici giovanili dell’ispirazione per far poi assumere al film il senso di un temporaneo, fondamentale “punto di arrivo”, la provvisoria “summa” creativa di una travagliata esperienza, quella di un percorso a ostacoli costellato  di opere all’apparenza (ma solo se si è superficiali e distratti)  tanto diverse e disuguali l’una dall’altra (da “sconcertare”  persino una parte cospicua della critica, soprattutto quella  più settaria e assolutista  che intendeva forse “salvaguardare” la salute morale dello spettatore  medio (sic!!!) per le tali e tante provocazioni profuse a piene mani), ma dalle quali emergono sempre elementi folgoranti, talvolta insidiosi, che le rendono frequentemente degli “ineguagliabili” capolavori che avvincono e inquietano.
Si può dire allora che la critica (è a quella dell’epoca della programmazione in sala delle singole opere che mi riferisco ovviamente, perché adesso fortunatamente il discorso anche valutativo si è finalmente fatto “serio” e compiuto),  si è spesso esaltata o scandalizzata (a seconda dei punti di vista e del posizionamento del pensiero) per i temi tratti dai suoi film, ma sempre e solo (salvo rare eccezioni) per ragioni “puramente esteriori”. Come in quegli anni scrisse Jos Burvenich infatti, nel tentativo di accettare o respingere “il pensatore”, essa (la critica)  finiva alla fine per pensare solo a quello, dimenticando l’artista.
Un affascinante cineasta dunque di indubbia “irregolarità formale” (e spesso proprio per questo “incompreso”), ma dai risultati comunque sempre pregnanti, del quale dobbiamo considerare anche l’aspetto “privato” del vissuto che può portarci a riconsiderare e a riflettere meglio  anche su alcune  circostanze esterne tutt’altro che di secondaria importanza, che potrebbero aver influito e”pilotato” persino il prioritario bisogno “creativo” dell’artista,  a volte un po’ appannato non solo dalla necessità di guadagnarsi, talvolta anche “duramente”, il pane quotidiano, ma anche e soprattutto, dalle limitate disponibilità produttive a sua disposizione che non potevano che condizionarne le scelte. Ma è indubbio in ogni caso che da Un Chien Andalou a Simon del deserto (dopo ovviamente andrà ancora meglio) il suo cinema comunica sempre il profondo bisogno di esprimersi attraverso le immagini, che rappresentano  la parte preponderante del suo lavoro, corrispondenti alla strepitosa capacità visionaria che lo contraddistingue. E questa sua forza espressiva, si ritrova sempre, anche nelle opere considerate minori, quelle fatte per “guadagnarsi da vivere”, perché anche con quelle il regista  è sempre rimasto fedele alla matrice culturale del surrealismo, che in Buñuel è assolutamente autentica,  nel senso che sfugge totalmente alla gratuità e al manierismo, e diventa per questo una necessità “narrativa”, il suo meraviglioso modo di “comunicare”, che solo raramente cerca di “sbalordire” anche nella sua provocatorietà. 
E’ dunque la sua la visione personalissima di una realtà che sfugge alla logica del razionalismo rigoroso, e che proprio per questo riesce sempre  a  far trapelare e comprendere la “passione” che ci sta dietro, il certosino lavoro anche ideologico che  la fa diventare in ogni caso  una irripetibile esperienza  vissuta intensamente, e non solo “pensata a tavolino”, elaborata e strutturata tenendo in prioritaria evidenza anche “concettualmente” il senso finale dell’operazione, per far sì che il  meccanismo concatenante di suggestioni che sfiorano a volte il paradosso, venga compiutamente catturato dalla macchina da presa, e trasferito in immagini  proiettate sulla tela bianca dello schermo  nei suoi infiniti giochi di ombre e luci.
Si può asserire allora che in Buñuel è  “l’immagine che chiama l’immagine”  e che è “la forma a generare la forma”, con un legame così coercitivo che deriva da una logica all’apparenza implacabile (o meglio inderogabile), ma assolutamente impossibile da spiegare a parole, tanto è violentemente  impostata emozionalmente proprio su quei suggestivi “rimandi visivi” che la rendono una esperienza non solo indimenticabile, ma anche ineguagliabile, perché in Buñuel  prima delle cose, prima degli uomini, c’è la luce: una luce implacabile, abbacinante che rivela prepotentemente le forme, non dissolve i contorni, ma li accentua. (e per verificare e comprendere la veridicità di tali asserzioni, è davvero sufficiente anche la semplice visione di questo film).
Sono infatti quelle luci, quei contrasti, a far acquisire a Simon, appollaiato sulla sua colonna, un “verità di presenza” incancellabile, che si trasforma  talvolta, con la sua “centralità assoluta”, in un insopportabile elemento disturbante. I monaci che lo circondano, diventano  al suo confronto, ingombranti, “pesanti”, quasi fastidiose presenze che inglobano anche l’altra “centralità” del demonio tentatore, presentato  sotto allettanti sembianze femminili, che si ridimensiona così in una sua  seriosa volgarità che, come scrisse a suo tempo Guido Fink ce lo fa comunque apparire come un diavolo in carne ed ossa, con tutti i crismi demoniaci della sua figura. Non il funzionario raffinato di Lubitsch e di Ingmar Bergman (ci si intende riferire evidentemente alle rappresentazioni che di tale entità malefica ci avevano offerto i due registi rispettivamente ne Il cielo può attendere e L’occhio del diavolo) ma bensì un Maligno da rappresentazione popolare che si traveste, scompare con urla e minacce ai vade retro del santo, pesta i piedi e spande intorno a sé odore di zolfo.
Tutte queste forme sono incongruenti, quasi irreali, ritagliate come figurine (o scolpite come statue) in una scenografia fatta di colonne e di deserto. Esse potrebbero facilmente trasformarsi in una pericolosa, ridicola caricatura, ma la visione e l’istinto espressivo del cineasta di rango, le mantiene invece  in perfetto e stupefacente “equilibrio” anche emozionale.
E la stessa impressione di d’irrealtà che inquieta e obbliga a scrutare con una certa diffidenza l’incredulità surreale rappresentata da quel monaco sulla colonna, si trasforma in una sensazione di realtà  tanto più intensa  quanto più fittizio appare il contorno che gli si contrappone. Gli stessi suoni, le voci, la canzone della ragazzina, partecipano e contribuiscono a creare questo isolamento quasi sensoriale. Invece di perdersi nel vuoto  risonante della scenografia,  anche quelle figure finiscono  così a loro volta per acquisire una strana autonomia  che raggiunge il diapason proprio nella bellezza  delle forme della loro “rappresentazione visiva”. Perché nella pellicola i suoni e le forme (personaggi compresi)  sono perfettamente fusi non solo fra loro, ma anche con la scenografia e l’intreccio narrativo, grazie all’inflessibile rigore del sognatore che ha impaginato ogni dettaglio senza davvero lasciar qualcosa al caso: in questo film, l’immagine visiva e sonora è sempre di prima grandezza, e soprattutto di straordinaria qualità, e questo a conferma della statura stratosferica di un artista completo in tutto e per tutto, e non semplicemente e “soltanto” un “esteta dell’immagine”. Egli si è fatto, si è forgiato, traendo linfa dalle sue origini, dalla sua vita difficile, dagli eventi avversi. Ed è tutto questo che egli esprime e rivela con un’arte che va addirittura più lontano del suo pensiero,  ma che porta in sé  proprio la forza di tale pensiero che si è formato attraverso tante vicissitudini condizionanti.
Posso allora dire che Buñuel nutre una sua visione artistica di realtà contrastanti che si oppongono fra loro in una violenta antitesi: una realtà cristiana, e un mondo senza Dio, perché i suoi sberleffi blasfemi mai gratuiti, sono in fondo intrisi  proprio di un profondo senso religioso.
In seno alla sua personalissima interpretazione della religione, emerge dunque un primo dissidio: la purezza del Vangelo e la contaminazione di un cristianesimo troppo influenzato dai compromessi del mondo (vedasi tutte le battute sulla proprietà privata che l’asceta non riesce a comprendere).
Al centro di questa visione, nasce a sua volta  l’orrore per il vuoto e l’impossibilità di sottostare passivamente alle fascinazione di promesse ritenute (e riconosciute) come “fallaci” troppo spesso propagandate come “verità” inappellabili, e l’amara delusione che ne consegue.
Nazarin, Viridiana, El, Simon,  solo per citare le opere più decisive sotto questo aspetto,  sono profondamente segnate da tutto questo. In esse, risulta chiarissima la fusione totale tra l’espressione surrealista e il contenuto: ambiguità inquietante della forma, continuamente sul punto di cadere nell’irreale (o meglio ancora in un “realismo insostenibile”); ambiguità del concetto della vita, del mondo, con uno sguardo sempre vacillante sullo spartiacque che Buñuel tenta di definire e di “sorreggere”  per cercare di mantener separata la “carne” dallo “spirito”.
Ma questa delusione (o meglio, l’espressione artistica di tale delusine che è  soprattutto profondo travaglio interiore), è presente  anche negli altri film del periodo: cosi la giovane ragazza protagonista di Violenza per una giovane, è a suo modo “sorella” di Viridiana e della bimba violentata nel Diario di una cameriera. Le accomuna una impossibile innocenza la cui ingenuità diventa tentazione (una innocenza che inconsciamente, proprio per questo, si sente direttamente complice della colpa che ne consegue) con tutte le simbologie e le valenze cosiddette freudiane che si porta dietro.
Anche in questo dramma  filosofico (o meglio allegorico) il regista affronta, come si è visto, l’annoso e spinoso argomento “religioso” con l’abituale ironia e con una punta di scetticismo. Se in questo segue sentieri già sperimentati, si modifica e si rinnova invece,  affinandosi notevolmente, l’unione (e il rapporto) fra “forma e contenuto” che in Simon è davvero essenziale.
Il découpage non prevede  una selezione di comportamenti conseguentim e tantomeno di dialoghi congrui fra loro. In tutte o quasi le inquadrature infatti, il regista immette elementi turbativi  e di spaesamento. A titolo di esemio, posso citare: il dono della colonna e la precisazione della sua altezza;  i passi incerti di Simon sulla scala a pioli nella sua discesa verso il basso, il rifiuto dell’ordinazione sacerdotale  e lo stupore un pò spaventato che lo  accompagna; la richiesta di miracolare il ladro e l’assenso dei ricchi che non si oppongono; la mano sull’occhio e l’inizio della preghiera ; e infine, la vibrante attesa che le mani amputate “germoglino” di nuovo e (con la semplicità di uno stacco) i conseguente effetto  "sorpresa" ben dedfinito dall'’indifferenza della gente.
Come già detto, l’apparente spirito dissacratore che anima il film non riesce a dissimulare del tutto l’origine profondamente cattolica della tematica che è poi l’ossessione del diavolo: sotto questo profilo, è Simon  il torturato,  ad essere provocato e tentato. Tanto più impressionante il percorso, in quanto Buñuel, pur evitando il racconto esatto, afferma la storicità del fenomeno religioso degli stiliti. La  colonna dovrebbe essere per Simon un trampolino verso il cielo, la necessaria base per far elevare la sua figura emaciata  sempre più in alto, su, verso l’infinito della volta celeste  verso cui è rivolta la sua preghiera, il suo sguardo intriso di abbagliante di purezza. Ma il suo corpo è sporco, “zavorrato” da ferite disgustanti, e trattenuto dalle figure emblematiche che lo circondano. C’è sua madre (richiamo della  carne e delle radici), che, muta, lo veglia da lontano e con una mano avvizzita, nasconde nella sabbia i suoi poveri escrementi che la rendono inequivocabile e materiale presenza terrena. Anche i monaci sono lì intorno: lo spiano in apparenza estasiati per quella sua estrema prodezza di asceta, ma profondamente scandalizzati da una “scelta” che diventa una insopportabile provocazione verso la loro mediocrità. Sotto di lui brulicano anche gli uomini della comunità, deformi, poveri, schiamazzanti. Vi è anche quel ladro al quale “restituirà” le mani che gli erano state amputate con un miracolo che diventa immediatamente il segno di una crudele contraddizione, perché gli arti “ritrovati” verranno utilizzati, come primo atto concreto, per picchiare il suo piccolo accompagnatore.
Ma Simone, l’atleta di Dio, non si scoraggia:conosce il maligno, e si è preparato a contrapporsi e a “resistergli”, ha l’arma della fede dalla sua parte. Egli vincerà così la triplice tentazione delle molteplici forme del demonio tentatore che vuole corromperlo, prima nelle vesti di una ragazzina ingenua – impossibile purezza – che si trasformerà improvvisamente in una giovane donna  fascinosa e opulenta, che  a sua volta, lui, con un parola, trasformerà in una vecchia schifosa momentaneamente “sconfitta” che, completamente nuda, fuggirà nel deserto gridando che ritornerà; successivamente con le sembianze del Buon Pastore  (beffardo accostamento con la sensualità di tante immagini devote) che riuscirà a far  piegare le ginocchia al santo sfinito, ma sarà prontamente smascherato; e  poi nella austera presenza di una morta chiusa dentro a una bara.
Ma ormai la formula  sacra “vade retro Satana” sembra aver perduto la sua forza, perché il demonio non retrocede più: ha ormai a sua volta imparato a conoscere il nemico di sempre, Dio, ne ha  confessato  la sua divina potenza. E forte di questa “confessione”, potrà alla fine mettere Simon  di fronte all’altra ineluttabile  realtà: il mondo e la vita. Il pesante quadrimotore  che, improvvisamente, sorvola il deserto (il geniale escamotage finale), porterà questa coppia di lottatori dal V° al XX secolo, dal deserto alla vita notturna di New York della contemporaneità.
Un Simone con la barba accurata ed elegantemente vestito, affiancato da un Belzebù nuovamente incarnato nelle avvenenti forme femminili della tentazione, sono di nuovo di fronte a combattere la loro battaglia senza fine: malgrado il suo desiderio di ritornare  dov’era, nel deserto e sulal colonna, sarà però Simon ad essere alla fine obbligato ad affrontare  la realtà: l’orgia sta per cominciare, il sabbat della danza notturna prende la sua forma. Il cerchio si chiude così con la conferma del sintomo “corruttore” della carne, con la trasmissione magnetica  del desiderio sfrenato: L’icareo Simon (scrisse a suo tempo Alberto Cattini)  vola così lassù nel cielo. Come in “L’âge d’or” si libra dalla “prima pietra” verso la Basilica di S. Pietro, in “Simon del deserto” la macchina da presa vola verso i grattaceli del “genio americano”, non più per una serata di gala con musica di Wagner, ma per trasferirsi nelle bolgie sfrenate  di un locale notturno a suon di rock’n’roll. Simon è un intellettuale molto annoiato, mentre la Cosa si dimena sulla sedia per il ballo della “carne radioattiva”, il sabba per l’appunto, moderna messa nera  del mondo borghese (…) quest’ultima scena (…) più che profetizzar un trionfo improbabile del maligno, sembra confermare, al presente, proprio l’indissolubile unità dei contrari e, per quanto concerne  Simon, sconsacrato e reso apatico, la sua inutilità.
Ciò che colpisce nella creazione visiva di Buñuel, è la  profonda simpatia, dura forse, e talvolta addirittura canzonatoria,  che manifesta verso quegli ingenui che credono di potersi sottrarre, in nome di una purezza “umanamente” impossibile, alla triste realtà della vita, che si riflette in un cristianesimo avvilito e compromesso soggiogato da una forsennata attrattiva verso il male, e la forza corruttrice della carne. Simon del deserto,  rimane dunque la testimonianza di un’arte maturata al servizio di uno spirito tormentato, potente sognatore, ma mai utopista. E questo tormento che talvolta si manifesta in profonda tenerezza, in protesta violenta, in provocazione brutale, quasi fino a sembrare blasfema (empia e irriverente), sembra derivare dall’impotenza dolorosa che lo rende consapevole di non riuscire a vincere  lo sfasamento tra un mondo fangoso dove si impantanano tutti gli sforzi di purezza – il sudiciume che li distrugge è a sua volta la voluttà che li attira, cosicché le vittime ne diventano impotenti complici – e un cristianesimo che, se osa tendere la mano a tale mondo, finisce a sua volta per corrompersi e per non avere davvero più senso.
Simon è interpretato da Claudio Brook (che nell’Angelo sterminatore era l’inflessibile  maggiordomo un po’ allocco che non riusciva a mantenere l’ordine nella villa del Nobile); la Silvia Pinal di Viridiana incarna invece la rappresentazione figurativamente al femminile del demonio tentatore.

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