Regia di Micaela Ramazzotti vedi scheda film
Discendente del cinema di Paolo Virzi, Francesca Archibugi, Guido Chiesa, Gabriele Muccino e Elisa Amoruso, la neo-regista Michela Ramazzotti dirige, interpreta e co-scrive "Felicità", classico melò con protagonisti Sergio Rubini, Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti e la già citata regista. Desirè è una stagista con un passato turbolento: la sua attuale relazione col professore universitario Bruno è in progressiva frantumazione e il rapporto familiare con i genitori e il fratello Claudio rischia di spegnersi per via di una terribile uscita di quest'ultimo. Ricolma dei suoi problemi relazionali, Desirè si ritroverà davanti ad un problema più grande di lei e sarà costretta a portarlo con sè sino al cambiamento repentino.
Partiamo dai pregi: Max Tortora, attore che apprezzo esclusivamente nelle imitazioni e nelle parti drammatiche, qui ha avuto un suo exploit eccessivamente sopra le righe ma contemporaneamente caloroso, come se avesse messo tutto se stesso per il ruolo del padre Max e, seppur il suo personaggio ha una serie di difetti elencabili al pari della busta della spesa, ha un suo perché. Menzionerei anche il buon Matteo Olivetti nel ruolo di Claudio, un personaggio giovane ma terribilmente devastato dal quieto vivere che ha un non so che alla Marinelli di "Non essere cattivo" di Caligari, ma ingiustamente mal sfruttato.
I difetti del film sono innumerevoli a mio riguardo: va bene che si tratta di un esordio ma non concepisco la marea di grossi problemi che derivano da questa pellicola melodrammatica che vanta (se così si può dire) una delle sceneggiature più insensatamente caricate, tronfie e spaesanti mai realizzate negli ultimi anni in Italia. La Ramazzotti non convince come attrice, immaginarsi come regista, proprio perché da l'impressione di star interpretando la recita delle medie: i raccordi sbagliati, la fotografia desaturata e orribilmente antiestetica, l'ambientazione di poco conto, le musiche loffie e il montaggio piattissimo non permettono al ritmo del film di poter dare una svolta interessante al suo contenuto e il tutto è frenato da interpretazioni alla "Boris" di renettiana memoria. Tratteggiare i propri personaggi con un unico stereotipo senza però affondare ancor di più il coltello nella piaga e farli variare è la grave perdita di una scrittura dal minimo potenziale, portata avanti tra l'altro dalla profondità pari a zero e la voglia snaturata di far crescere le personalità.
La Ramazzotti avrebbe voluto fare un film alla Muccino, con familiari che emettono urla forzate e con un finale a tarallucci e vino, ma è finita a fare forse peggio.
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