Regia di Micaela Ramazzotti vedi scheda film
L’esordio al lungometraggio di Micaela Ramazzotti è, almeno in parte, il film che non ti aspetti. Un film che parte da delle premesse di commedia agrodolce di costume e diventa, col minutaggio che passa, una sorta di calcolato melodrammatico accanimento sui personaggi principali. Tirato via da un’enfasi fuori contesto che pure poco avrebbe a che spartire con il tentativo di affrontare temi tuttora paurosi per molto altro cinema italiano.
Sì, perché la centralità della depressione clinica, che affligge il fratello della protagonista Ramazzotti, non è presentata con sconti e abbellimenti, ma è schietta e brutale, e soprattutto affrontata rispetto alla percezione che della psichiatria hanno generazioni diverse, cioè a dire i trentenni e i genitori dei trentenni. I primi disposti ad ammettere di averne bisogno (con piccole defiance), i secondi totalmente cocciuti e ostinati nel dichiarare che la psichiatria sia insulsa e le malattie mentali inesistenti. Raramente nel cinema italiano si vede un ritratto senza sconti di una generazione (quella dei genitori dei protagonisti) così abietta e incapace di redenzione. Quasi inumana nel trattare dei problemi dei loro figli e nel manipolarli per la propria comodità.
A parte questo, il film deve per forza poi richiudersi nella ricerca del trauma, del male originario, della tragedia imprevista, per dare forma a un dramma che con difficoltà riesce a tenersi in piedi da solo con carisma e regia cinematografica. Ma è comunque lecito rimanere stupiti di fronte a una tale assenza di buonismo, seppur imbrattata dalla smielata voglia di farsi capire a tutti i costi.
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