Regia di Miklós Jancsó vedi scheda film
“Nei piani-sequenza di Jancsó esiste una molteplicità dei livelli di visione, all’interno della quale l’occhio dello spettatore può orientarsi, scegliere, decidere a quale elemento dell’inquadratura attribuire il ruolo che egli (e non il regista in sua vece) ritiene più significativo. (…) Si riafferma così sia quella che Bazin chiama «ambiguità del reale», sia la libertà di scelta dello spettatore”. (Giulio Marlia)
Il silenzio e il grido è l’opera che chiude la trilogia aperta nel 1965 con I disperati di Sándor. (sulla feroce repressione nell’Ungheria post-quarantottesca esercitata dagli austriaci a metà ottocento nei confronti delle ultime, irriducibili bande di ribelli) e proseguita poi nel 1967con L’armata a cavallo (che si rifà invece alla partecipazione dei prigionieri ungheresi alla rivoluzione bolscevica). Un trittico dunque che pone magistralmente al cento il discorso sul potere e l’individuo, sui dominati e i dominanti sempre ossessivamente presente nella poetica del regista e rispetto al quale, questa pellicola ne rappresenta l’amara conclusione (ci sarà comunque un’ulteriore appendice indagatoria nel successivo, personalissimo Venti Lucenti), ma che può essere considerata per più di una ragione, anche l’estremizzazione formale del modo non solo di intendere, ma di “fare il cinema” da parte di Jancsó, a partire dalla definizione di uno stile davvero unico che - come confermato dallo stesso regista -, rimanda “ispirativamente” e prima di tutto al modus operandi di Antonioni (ma in questo caso anche a Bergman, come si evince fin dal titolo che è quasi una voluta parafrasi citazionale – e un omaggio - che fa riferimento a due dei loro titoli più celebrati e altrettanto problematici: Il gridoe Il silenzio), pur divaricandosi poi nei contenuti che nel regista ungherese parlano prima di tutto del totale annullamento dell’essere umano davanti ai grandi traumi che la storia (intesa come portatrice di disordine e crudeltà) impone inesorabilmente, sia nei suoi momenti più fortemente rivoluzionari, che in quelli della successiva restaurazione, ma in seconda istanza, anche della mortificazione della dignità e della brutalità della lotta per il potere.
Opere insomma totalmente prive di sentimentalismo e di retorica politica, da risultare immuni da qualunque riferimento alla dottrina – allora dominante nelle democrazie popolari – del “realismo socialista”. Traggono infatti la loro forza non dal didascalismo del messaggio che è assente, almeno nella forma consueta, ma dalla sorprendente tecnica visiva e di ripresa che ha reso celebre il regista (l’istintivo ricorso al rituale, come ha ben definito il tutto Giovanni Buttafava) che si nutre soprattutto di reiterati, lunghissimi piani-sequenza che spesso – e quasi senza soluzione di continuità - chiudono i personaggi dentro avvolgenti movimenti circolari di sorprendente valore esplicativo. Se il piano-sequenza infatti è per definizione il modo più concreto per fissare la realtà senza troppi infingimenti, per come viene utilizzato dal regista che lo inserisce sempre dentro un universo filmico antinaturalista per eccellenza, assume inevitabilmente nelle sue pellicole una valenza diversa (basta infatti pensare alla gestualità ritualistica dei personaggi che ci si muovono dentro, per comprendere che qui siamo davvero molto lontani da una riproduzione piattamente imitativa del reale). Una modalità insomma che finisce per creare una vera e propria contraddizione in termini, una specie di corto circuito che fa riverberare ancora di più il carattere ricostruttivo, manipolatorio, dell’avvenimento filmico, che è anche un eccellente modo per “distanziare” la partecipazione emotiva dello spettatore e indurlo di conseguenza a una riflessione personale e autonoma.
C’è infatti nel suo speciale modo di raccontare vicende che si riferiscono quasi sempre a specifici fatti storici, il totale rifiuto di fornire ogni “realistica” spiegazione ai gesti e alle azioni dei propri personaggi lasciando appunto allo spettatore il compito di “decifrarli” a suo piacimento e (se del caso) prendere posizione.
Sono tutte caratteristiche talmente peculiari, che rendono Jancsó fra tutti gli autori dell’Europa orientale suoi contemporanei (e ce ne sono anche alcuni di altrettanta importanza), quello che meglio di ogni altro è riuscito a mio avviso a inventare una forma assolutamente inedita per rileggere e interpretare lo spirito del tempo (sono opere ambientate nel passato, ma che parlano del presente – quello in cui sono state concepite e girate - e si proiettano persino nel futuro, come possiamo benissimo constatare rivedendole oggi a molti anni di distanza), coniugando magistralmente la più gelida astrazione (il suo linguaggio ritualistico, appunto) con la più netta e dolorosa ribellione contro il potere.
Si può affermare inoltre che fra le opere di Jancsó Il silenzio e il gridoè forse quella che più di altre assume il senso e il peso di un vero e proprio saggio di camera in movimento come lo definì il regista stesso. Un risultato che però non è soltanto “forma”, ma anche “angosciante contenuto”, il che lo rende uno dei suoi film più disperati, poiché la conclusione è di un pessimismo davvero abissale: qui nonostante il gesto di rivolta individuale altrettanto sconfortato del finale, è infatti il potere (e la sua malvagità tentacolare) a risultare il solo vincitore in una conclusione dove tutto è pervaso dalla sua prepotenza corruttrice e distruttiva che ha completamente disintegrato ogni pur minima traccia di rivalsa che avrebbe potuto lasciare aperto qualche piccolo spiraglio alla speranza.
“Il silenzio e il grido è insomma la quintessenza dell’essenzialità cinematografica, la più ascetica prova stilistica che ha dato questo autore ungherese”: così Mino Argentieri ne Un grido che si leva da un silenzio essenziale, pubblicato su Rinascita del 10 marzo 1970). Io credo che sia la migliore definizione che si poteva dare al percorso in “levare” di Jancsó che qui sintetizza davvero – più che in altre pellicole - le modalità codificate della sua “personalissima forma cinematografica” con una maturità estetica e linguistica compiuta e stimolante che mette in evidenza le straordinarie potenzialità di un cinema in cui anche la comunicazione verbale sta diventando secondaria rispetto alla forza delle immagini e dove l’individuo, ridotto a un asservimento più volontario che imposto, è condannato a una irrimediabile solitudine da vivere nel silenzio della desertica piattezza di una pianura che sembra essere infinita: un silenzio che se si escludono i colpi secchi delle armi, è “violentato” unicamente dal soffio del vento, l’abbaiare dei cani e il canto uccelli.
Un’essenzialità di visione raggiunta unicamente ricorrendo a una scrittura cinematografica quasi “francescana” e austeramente spoglia, ma soprattutto priva di elaborate psicologie, poichè i suoi personaggi sono rappresentati e indagati attraverso la semplice esposizione delle tragiche situazioni in cui si trovano a dover operare, in genere senza poter contare su una seppur remota via di scampo, e dove l’unica motivazione rimasta è quella della pura sopravvivenza animale: “E’ vivere questo?” domanda scoraggiato rivolgendosi a Károly (un contadino compromesso con la repubblica dei Consigli e ricattato dalla polizia) l’ex–soldato rosso István (non a caso interpretato da Andràs Kozàk – quasi sempre utilizzato da Jancsó per farlo diventare il suo diretto portavoce all’interno delle proprie pellicole) che si è dato alla macchia perchè non riesce più a fronteggiare e opporsi da solo a una situazione in cui ogni valore umano e sociale è svanito e non c’è più alcuna difesa o ritegno: si è costretti a prostituirsi se si vuole in qualche modo provare a sopravvivere, accettando qualsiasi umiliazione nella passività più completa.
In questo senso però la sequenza maggiormente rivelatrice dei significati profondi del cinema janciano delle origini, è quella della lunga inquadratura in cui il poliziotto in borghese costruisce false prove per coprire un delitto commesso dalla polizia stessa, mettendo in scena, letteralmente, l’inchiesta: non a caso c’è una macchina fotografica di fronte alla quale i due personaggi (fra cui Károly) scelti (designati) come assassini devono mettersi in posa, obbedendo alle consuete intimidazioni; non a caso il ruolo del poliziotto è affidato ad un uomo di cinema (il franco-ungherese Laszló Szabó, amico di Godard, attore e poi regista” (ancora Giovanni Buttafava) che dà una luce speciale a tutta la sequenza.
La rappresentazione mediata del potere insomma e delle sue aberrazioni che Jancsó orchestra con millimetrica precisione lasciando che la macchina da presa faccia il suo corso “documentale” fermandosi e indugiando sullo sguardo “rivelatore” (attonito e sgomento) di Károly costretto ad avvicinarsi ai due cadaveri, a toccarli in viso, a sfiorare i loro oggetti personali distendendoci sopra le dita delle mani, che lo avvicina davvero – assimilandolo in tutto e per tutto - a una bestia braccata, sconvolta dal terrore, che non ha più la forza nemmeno di reagire (proprio come un coniglio paralizzato dalla paura di fronte al serpente che sta per divorarlo). E al fine di farci percepire tutto questo, lo isola dal contesto e lo mantiene in assoluto primo piano sottraendo così al nostro sguardo la presenza mefitica degli inquisitori, dei quali – e fino al termine di quella ripresa - udremo soltanto la fredda ripetitività degli ordini che impartiscono, perfetta per rappresentare l’alienazione del rapporto che si determina sempre fra vittima e carnefice (repulsione-attrazione, obbedienza- asservimento) che diventa quasi una disgustosa unione mostruosamente contro natura (Giulio Marlia).
Il silenzio e il grido(che inizia già mostrandoci per alcuni secondi l’immobilità assoluta di uno schermo totalmente nero – magnifica metafora della morte incombente - supportato soltanto da alcune note di una composizione di chiara derivazione militare strimpellate da un pianoforte – unica concessione allo score musicale che in questa pellicola è totalmente assente - sul quale si stagliano poi netti e perentori i bianchi titoli di testa oltre a una breve didascalia atta a fornire le informazioni essenziali sul clima di feroce repressione instauratosi nel 1919 in Ungheria dopo l’abbattimento della Repubblica dei Consigli di Béla Kun ad opera della controrivoluzione fascista guidata dall’ammiraglio Mikló Horthy, per passare subito dopo alla prima inquadratura che ci mostra uno spazio vuoto, quasi a voler simboleggiare l’assenza di vita e il silenzio di un universo spossessato [ancora Marlia] e che sfocia direttamente sull’immagine delle colline di sabbia che come vedremo sarà poi il luogo dove i prigionieri politici vengono trascinati per essere sommariamente giustiziati) ci spinge già di prepotenza dentro a un procedimento anche visuale di un’opera che si affida maggiormente alle sottrazioni di senso, e dove tutti i rapporti si riducono ai gesti più elementari come apparecchiare la tavola, mangiare, vestirsi, salire su un caro, avvicinarsi a qualcuno, allontanarsi, o toccare qualcosa (e anche i dialoghi sono essenziali e limitati al massimo: si riducono quasi esclusivamente a sequenze di ordini impartiti che spesso si amplificano passando da un superiore a un subordinato, il quale a sua volta li ripete al propri inferiore rendendoli addirittura quasi surreali).
Anche lo scenario naturale è più limitato del solito: qualche inquadratura della pianura e delle dune di sabbia (le “colline bianche”), la stazione della polizia, la fattoria dove si è rifugiato István, e poco altro. Contrariamente a quello che avveniva nelle sue due opere precedenti inoltre, qui non ci si concentra più sulle masse, ma solo su cinque personaggi principali e qualche comparsa. Insomma questa volta l’evidente astrazione sembra voler sfociare nel simbolico nel suo raccogliersi intorno al ritualismo della repressione e della liturgia del potere piuttosto che sulle singole figure che pure sono importanti e tutt’altro che secondarie per esporre e rendere palese il teorema, per altro magnificamente supportato da lunghi, estenuanti movimenti circolai, dagli andirivieni insensati e dai potenti piani sequenza particolarmente efficaci nel far toccare con mano anche allo spettatore che osserva dalla sala, l’assurdità di questo interminabile balletto di negazione della vita che Jancsó vorrebbe forse far sfociare in un grido di rivolta che coinvolgesse anche chi guarda (che invece purtroppo difficilmente raccoglierà l’invito) per fargli comprendere che anche lui, semplicemente rimanendo passivo, è comunque un complice – anche se involontario - di tanto orrore.
Quello che appare ai nostri occhi è dunque soprattutto la visione terribile di un mondo in cui gli individui hanno perso i tratti della propria umanità e dove le uniche forme di rapporto rimaste sono di carattere antagonistico e gerarchico, tanto è vero che ciascun individuo è definito, rispetto agli altri, in base al proprio grado di appartenenza ad una scala di potere, il che lo mette automaticamente in grado certamente di dover sottostare a dei comandi, ma di poterli a sua volta impartire ad altri.
C’è poi anche qui il tema della delazione. Il tradimento è infatti per Jancsó uno dei simboli più evidenti e drammatici che denunciano l’asservimento al potere, il bieco opportunismo che segue l’abbandono di ogni precedente ideale di libertà. Ed è forse per questo che nel suo cinema spesso i tradimenti si susseguono l’un l’altro e rappresentano quasi il filo conduttore che lega ogni evento, fino a sfociare nella conclusione obbligata del tradimento collettivo, che corrisponde al momento in cui tutti i ribelli cadranno definitivamente nella trappola (anche quando ciò non viene esplicitamente rappresentato sullo schermo, ma solo fatto intuire).
La totale rinuncia al commento musicale a cui ho accennato prima, è l’ulteriore negazione di una narrazione tradizionale che conferma il distacco assoluto dall’emotività e dallo psicologismo, qui sostituito da un più efficace e corrispondente procedimento ellittico che, come abbiamo già visto, vira verso l’astrazione, che non diventa mai però – si badi bene – pura metafisica: Paolo D’Agostini ce ne evidenzia i pregi e i rischi, sottolineando che questo può creare persino qualche fraintendimento ma che soltanto un pubblico non abbastanza informato – o anche semplicemente poco attento, aggiungo io – può travisare un modo di narrare che seppure rifiuta ogni spiegazione, è comunque saldamente ancorato a un tessuto storico e culturale nazionale al quale guarda con grande commozione.
Un altro tema molto forte che è giusto esaminare, è quello della guerra civile, che è una situazione al limite in cui la violenza e la repressione assumono inevitabilmente toni particolarmente aberranti, perché prendono forma e si esplicitano tra individui che hanno molte cose in comune, che parlano la stessa lingua, che condividono a volte la medesima storia personale ma che si divaricano nelle scelte inverse frutto delle loro differenti convinzioni. Questo rapporto di maggiore familiarità fa risaltare ancor di più il carattere disumano e alienante della contrapposizione feroce ed aggressiva che si manifesta come una cappa di piombo soffocante, che pervade di sé ogni spazio ed ogni aspetto del vivere umano e che spesso è l’anticamera di una dittatura: una dittatura così totalitaria che rende ogni essere spiato quasi ad ogni istante da uno sguardo che può condannarlo a morte. Una “sensazione” resa tangibile nel film da un altro ribaltamento strutturale di straordinaria efficacia che non associa più l’idea di libertà illimitata a quella dello spazio aperto, ma sceglie invece di far percepire proprio quest’ultimo come un’invalicabile prigione che ingloba l’intero paese “oppresso” che ha accettato di collaborare con un tiranno invisibile di cui gendarmi e commissari sono gli agenti esecutivi. Il silenzio e il gridoevoca dunque una scacchiera del terrore dove le pedine in movimento sono gli uomini e le donne che animano la storia (Michel Estève) tutti inevitabilmente perdenti e destinati alla sconfitta.
E’ indiscusso comunque che il regista cerchi nelle sue immagini un “effetto” che mi verrebbe da definire “coreografico” ben supportato dall’impiego di un obiettivo zoom (che passa però quasi inosservato ) qui utilizzato da Jancsó credo per la prima volta per poter così entrare direttamente “dentro” ai movimenti dei suoi attori, rinforzando così l’effetto prodotto dalle carrellate ordinarie che ben conosciamo, con queste per lui inedite “carrellate ottiche”, e rendendo di conseguenza più espliciti i rapporti emotivi fra i vari personaggi “semplicemente” osservando il modo in cui le varie figure occupano gli spazi a loro disposizione intrecciando una complessa ragnatela di collegamenti ipertestuali (vedi la lunga sequenza definita ancora da Marlia cinema puro in cui Teréz, István e Anna si avvicinano, si abbracciano, si separano, si raggruppano di nuovo, si allontanano, senza che questi movimenti abbiano alcuna giustificazione se non quella puramente visiva di raccontarne le emozioni e lo speciale tipo delle loro relazioni interpersonali).
Da segnalare ancora l’uso di una fotografia plumbea dove prevalgono le tinte grigiastre prive di variazioni, gli altalenanti movimenti della cinepresa che passa da sinistra a destra e viceversa senza che si produca in pratica un effettivo movimento, poiché ogni spostamento sembra annullarsi in se stesso, che ci fa di nuovo percepire i confini inviolabili di quell’invisibile prigione che si estende dappertutto.
Attenzione Spoiler:
Ungheria, 1919: cade la repubblica dei Consigli di Béla Kun. Alla sconfitta della prima rivoluzione comunista ungherese segue la spietata repressione da parte dell’esercito “bianco” dell’ammiraglio Horthy, che semina il terrore anche negli angoli più isolati del paese. A un soldato rosso fatto prigioniero, viene data l’illusione della libertà fingendo di lasciarlo fuggire e poi gli sparano alla schiena sulle “colline bianche”. Per snidare chi ancora si nasconde, i gendarmi si servono di Károly, ex-soldato della Repubblica che per viltà tradisce i suoi compagni. Teréz, sua moglie, e sua cognata Anna, stanno al gioco e sono in buoni rapporti con Kémeri, il comandante bianco della zona. Costui sa che in casa di Károly si nasconde István, un pericoloso soldato rosso verso il quale le due donne si sentono fortemente attratte, ma tace perché il fuggiasco è un suo compagno d’infanzia e tollera la situazione limitandosi a imporre a Károly inutili umiliazioni e ad accettare i favori delle due donne. István disgustato, rinfaccia a Károly la sua vita e la sua condotta e abbandona il nascondiglio. Non trova però nessun altro disposto a nasconderlo e deve di conseguenza ritornare sui suoi passi. La situazione di Károly si fa comunque sempre più difficile: la polizia gli attribuisce due delitti che non ha commesso e le due donne, moglie e cognata, decidono di avvelenarlo insieme alla sua vecchia madre. István, intuito il complotto, decide di autodenunciarsi ed esce allo scoperto: Kémeri non lo può più coprire e deve inviarlo alle “colline bianche” per l’esecuzione. Prima che gli sparino alla schiena, preso dalla pietà, gli offre peròuna pistola affinché sia lui stesso a darsi la morte. Ma nell’ultima inquadratura l’uomo rivolge la pistola verso l’aguzzino in uniforme e……
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