Regia di Peter Brook vedi scheda film
Grande e crudo film inglese anni '60. Un branco di ragazzini della buona società inglese scaraventati in un'avventura collettiva alla Robinson Crusoe. Un manuale di antropologia culturale. Bianco e nero meraviglioso.
AVVERTENZA. Quella che segue non è la mia ultima recensione, bensì il testo che nell’agosto del 2017 pubblicai per errore attribuendolo al remake dello stesso film, uscito nel 1990.
Non ho letto il romanzo da cui è tratto ma, se il film gli è fedele, deve trattarsi di un vero e proprio trattato allegorico di antropologia culturale. Con un espediente fantasioso, che consiste nel lasciare libero corso alle peripezie di un folto gruppo di ragazzini inglesi della buona società finiti su un’isola deserta in seguito ad un naufragio aereo, l’avventurosa vicenda ricostruisce i primordi della vita sociale umana. Con buona pace di Beaudelaire e Rosseau, l’infanzia non è un verde paradiso e l’uomo non è un buon selvaggio. Anzi, ogni individuo nasce istintivo, egoista e violento. Ci vogliono anni per raggiungere l’età della ragione, per riconoscere e rispettare l’altro, per accettare il dialogo in sostituzione della legge del più forte. A questa cruda realtà ci riporta il branco di maschietti ripiombati a loro insaputa nell’età del fuoco. Siamo lontani dall’invenzione della ruota, si vive di caccia e raccolti, si ha la fortuna di essere capitati in un luogo climaticamente e ambientalmente rassicurante. La ciurma approda sull’isola e, in brevissimo tempo, scattano i meccanismi propri di qualsivoglia consorzio umano, di qualunque età, in qualsiasi epoca: individuazione di un capo, immediata apparizione di un antagonista, lotta per il potere. Nascono spontaneamente i primi rituali, ci si dipinge il volto, si urla in coro, ci si inventa un misterioso gigantesco nemico che si aggira per l’isola. Ad un certo punto, lo spettatore è indotto a dimenticare che i protagonisti sono tutti ragazzini. Sembra di seguire un drammatico film d’avventura interpretato da adulti.
Peter Brook, uomo di teatro, è abilissimo nel mettere in scena il gruppo di giovani attori, facendo emergere le singole personalità di quattro o cinque protagonisti e organizzando mirabilmente il “coro” che li circondano. Tra i personaggi principali, spicca l’occhialuto e grassottello “Piggy”, sistematicamente deriso dai coetanei, ma eminenza grigia quanto saggia del leader legittimamente eletto. Le lenti dei suoi occhiali sono l’unico mezzo a disposizione per produrre fuoco, un potere di cui avrebbe fatto volentieri a meno e che gli costerà caro.
“Il signore delle mosche” è un film crudele e pessimista. Nella parte finale, si assiste impotenti all’affermarsi della tirannia, cui fa seguito la barbarie. Alcune tra le ultime scene sono pugni allo stomaco. Unica via d’uscita per lo sgomento spettatore, ma magra consolazione: ricordare in tempo utile che i personaggi sono ragazzini, non adulti. E’ quanto avviene in maniera inattesa e molto efficace nell’ultima sequenza del film, che mi guardo bene dal rivelare.
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