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Quattro mosche di velluto grigio

Regia di Dario Argento vedi scheda film

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La recensione su Quattro mosche di velluto grigio

di Antisistema
6 stelle

Terzo ed ultimo film della trilogia degli animali, con cui si chiude la primissima fase di carriera di Dario Argento, Quattro Mosche di Velluto Grigio (1971) si conferma essere un titolo di transizione nella filmografia del nostro "regista de paura", segnando il passo verso un approccio più visivo e fantastico rispetto alla classicità del precedente Gatto a Nove Code (1971), che nel suo essere un giallo classico ma con una sceneggiatura sconclusionata, risultava essere una pellicola mediocre rispetto alla fiammata dell'esordio dell'Uccello dalle Piume di Cristallo (1970), che ripensandoci in effetti resta una piccola vetta all'interno del thriller-giallo all'italiana, sia per una sceneggiatura più centrata nella componente investigativa e sia per l'intuizione di dare spazio ad una risoluzione di tipo visivo.

Con il suo terzo film Argento sembra voler ritornare sui binari degli esordi, ma le singole intuizioni oltre ad essere oramai già viste alla sua terza pellicola, pagano il pegno di una componente narrativa ancora troppo forte e che quindi, mostra il fianco ad un intreccio improbabile con un finale buttato lì e troppo tirato per le lunghe con i tempi, inoltre sia la scrittura dei due protagonisti Roberto Tobias (Michael Brandon) che di sua moglie Nina (Mimsy Farmer), ci consegna due figurine scialbe e dall'anima poco "rock", nonostante la professione di batterista in una band da parte di Roberto, il quale paga pegno come Nina di essere interpretato da due attori iper-mediocri e senza che riescano a trasmettere un briciolo di interesse nei loro personaggi. 

Se la trama investigativa è quella che è ed i due protagonisti sono molto scialbi, incredibilmente funzionano molto bene i personaggi secondari, cominciando da Diomede interpretato dal mitico e sottovalutato Bud Spencer, che consiglia a Roberto di rivolgersi ad un investigatore privato di sua conoscenza per cercare di scoprire l'individuo che lo sta perseguitando tramite oggetti personali, minacce fisiche, telefonate e fotografie di un omicidio che Roberto avrebbe commesso in un teatro dopo una colluttazione accidentale con un individuo misterioso di nome Carlo Morosi, che da tempo spiava il gruppo musicale di cui Roberto faceva parte. 

Gli inseriti comici argentiani seppur scritti con il pennarellone grosso, colpiscono nel segno grazie alla sagacia dei loro interpreti, cominciando da Diomede, che grazie alle doti comiche del suo interprete Bud Spencer, è un personaggio sospeso tra visione umoristica nera dell'esistenza ad un pragmatismo marcato, non è un caso che l'uomo viva al di fuori della città e sia dedito alla pesca in un fiume cittadino dalle acque oramai inquinate, così come quando decide di incontrare nuovamente Roberto ad un'esposizione di pompe funebri, dove anche la morte è oramai commercializzata dal capitalismo, come sottolinea argutamente il grande Bud Spencer. 

Bravi anche gli altri due caratteristi del Professore (Oreste Lioniello), incaricato di sorvegliare la casa di Roberto e sopratutto del mitico detective omosessuale Gianni Arrosio (Jean-Pierre Marielle), che parte come una macchietta fastidiosa, per poi rovesciare ogni strereotipo, grazie anche alla sua serie negativa di ben 84 casi mai risolti, eppure mai come prima in questo caso sembra brillare di nuova luce deduttiva, giungendo a scoprire cose importanti sull'assassinio. 

 

 

Rispetto al precedente film, Quattro Mosche di Velluto Grigio già comincia in un modo migliore, con quei minuti iniziali con un montaggio da videoclip ante-litteram così poco usato ed inconsueto per l'epoca, delle prove della band rock di cui Robert svolge il ruolo di batterista ed è intento a lottare contro una mosca fastidiosa che gli ronza intorno, simbolo di un pensiero ossessivo, come quel sogno ricorrente riguardante un boia che tramite una scimitarra, decapita un uovo dall'identità sconosciuta in una piazza dell'Arabia Saudita, che in una chiave psicanalitica di stampo Freudiano potrebbe simboleggiare una delle paure più profonde dell'uomo, l'evirazione e quindi la propria morte sessuale, che nella pellicola prende forma nel suo tradimento a favore della cugina di lei, Dalia (Francine Racette), dopo che la moglie Nina viene mandata via a causa della situazione di pericolo venutasi a creare.
Altro simbolismo è ovviamente rappresentato dal teatro che compare nelle battute iniziali della pellicola, dove avviene la collutazione tra Roberto ed il misterioso individuo spione, che finisce con la morte di quest'ultimo sul palcoscenico sotto dei riflettori accesasi, luogo per eccellenza della rappresentazione che nel cinema diventa messa in scena tramite il potere della macchina da presa con cui Argento gioca con buona abilità con le certezze dello spettatore divertendosi successivamente a sovvertirle.
E' un peccato come queste singole intuizioni vengano devastate da una sceneggiatura sconclusionata, due protagonisti men che mediocri e dei dialoghi imbarazzanti, poichè meritavano miglior fortuna questi tocchi interessanti come i simbolismi della decapitazione e del teatro iniziale, il rallenty finale con l'incidente, le tre sequenze di omicidi e sopratutto l'artifizio visivo che porta alla risoluzione di un caso che non presenta alcun indizio empirico vero e proprio, che seppur risulti una scemenza priva di riscontri reali, alla fine è buono come spunto fantasioso, poichè per assurdo riesce a dare un certezza ad una pellicola che senza di esso non ne avrebbe alcuna, perchè l'immagine più assurda riesce a giustificare più di tante parole mal scritte come quelle nelle motivazioni finali dell'omicida.
Il successo ai botteghini fu strepitoso, però a livello artistico seppur superiore rispetto al Gatto a Nove code, non raggiunge la qualità dell'esordio, forse perchè la pellicola sembra più girata in taluni punti da un clone "bravo" di Argento che dal regista in persona o forse semplicemente al terzo film semplicemente i topoi di Argento stanno cominciando a diventare dei clichè (soggettiva insita negli omicidi, voce stridula dai toni bassi dell'assassino, look dell'omicida identico, scelte estetiche che pigramente si appoggiano al suo esordio e così via), per fortuna di noi spettatori il regista romano con il successivo Profondo Rosso (1975), intraprenderà una svolta netta a favore dell'impronta visiva con esplosioni di fantastico, portando alla maturità certi elementi che in questa trilogia erano in nuce.

 

Mimsy Farmer, Michael Brandon

Quattro mosche di velluto grigio (1971): Mimsy Farmer, Michael Brandon

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