Regia di Dario Argento vedi scheda film
Roberto è il batterista di un gruppo musicale, al termine delle prove di registrazione di un album nota uno strano individuo che lo insegue con insistenza. Decide di affrontarlo: l’uomo in baffi, occhiali scuri e cappello nero entra in un teatro vuoto, Roberto gli chiede spiegazioni e questi risponde con un coltello in mano, contemporaneamente dalla platea un tizio con una maschera di carnevale fotografa quegli attimi, distratto dai flash “uccide” l’uomo che cade in una botola sotto il palco. Il batterista, residente in via Fritz Lang a Città, è convinto di aver commesso un omicidio ed è sotto shock. Nasconde il fattaccio alla moglie e agli amici, nonostante sia evidente il suo stato alterato, perturbato anche da uno strano incubo notturno. Le minacce sotto altra forma continuano a perseguitarlo e il maniaco comincia una serie di efferati delitti. La soluzione del giallo sarà impressa nella retina dell’ultima vittima…
QUATTRO MOSCHE DI VELLUTO GRIGIO - terzo lungometraggio di Dario Argento – prepara il terreno a PROFONDO ROSSO. Diversi elementi lo accomunano: il protagonista musicista, la figura del gay (l’investigatore privato Arrosio e il compagno di Carlo) emancipato e rilevante per le indagini, le figure buffonesche come l’amico Dio(mede), il professore e il postino in questa pellicola; le gag della 500 e il commissario nella pellicola del ‘75. Molti luoghi come Torino e l’Eur ritorneranno svariate volte nel suo cinema, la metropolitana di Milano è un inedito che qui occupa una parte di scena notevole. All’epoca, inoltre, Argento si prendeva la libertà (molto rischiosa) di mescolare i generi e i registri. In QUATTRO MOSCHE molte gag funzionano, i personaggi interpretati da Bud Spencer (doppiato da Sergio Graziani) e Oreste Lionello convincono eccome e non sporcano, non inquinano la linearità del giallo e del thriller. La soluzione del titolo, le camminate solitarie tra la folla di Roberto e Arrosio in Città, l’incubo arabo della scimitarra, la morte conclusiva al ralenti sono segni tangibili e indelebili del genio del regista romano. Una scrittura immaginifica (coadiuvata nel soggetto da Luigi Cozzi e Mario Foglietti), accompagnata dal talento visivo stupiscono ancora e purtroppo si sono andate esaurendo con gli anni (specie gli ultimi), le osservazioni su parti di dialogo banali lasciano il tempo che trovano col senno di poi. Ennio Morricone non delude nei momenti clou ma ben altra cosa saranno i Goblin nella completezza dell’opera Argentiana.
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