Regia di Dario Argento vedi scheda film
Per il fan di Dario Argento, o per il semplice appassionato di genere, tornare a rivedere a distanza di anni un film come Quattro mosche di velluto grigio non può che lasciare sensazioni contrastanti, un misto di stordimento e confusione, come se qualcosa di indecifrabile fosse fuori posto, anomala, incongruente, “sbagliata”.
Non si impiega molto a capire quale sia il disturbo che all’inizio turba la nostra visione, è una banale ovvietà, una domanda che appena parte il film chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il cinema di Argento, soprattutto con le sue ultime opere, non può fare a meno di porsi.
Come fa uno che gira un incipit folgorante, sincopato, mostruosamente accattivante tra stacchi di montaggio, riprese ricercate, ficcante uso della musica, soluzioni visive originali e tremendamente funzionali a smarrire completamente un bagaglio tecnico di questa portata?
La caduta inarrestabile del cinema di Argento resta veramente uno dei misteri piu grandi della nostra cinematografia, un mistero che probabilmente non troverà mai soluzione ma che tornando a vedere (o rivedere) i suoi primi film si ripropone in tutta la sua stortura, scatenando riflessioni e congetture di ogni tipo.
Mah…sarà che solo un giorno prima in tv mi era capitato di vedere Il cartaio (che avevo gia visto), ho retto credo dieci minuti, poi ho dovuto cambiare canale, una roba brutta, ma non per la storia in se, proprio per la forma, per l’estetica, per la tecnica.
E allora parliamo di questa forma, parliamo dell’incipit del film che chiude la famosa trilogia degli animali (L’uccello dalle piume di cristallo e Il gatto a nove code sono gli altri due titoli), un ritmo forsennato che subito ci assale, è il tempo di una batteria suonata con vigore ma che di colpo si ferma per lasciare spazio al battito essenziale di un cuore insanguinato, poi riprende la sua cavalcata rock presentandoci il giovane protagonista Tobias (Michael Brandon), immerso in una quotidianità fatta di registrazioni con il suo complesso, di passeggiate in città ma anche di un inquetudine crescente.
Perchè c’è un misterioso individuo che lo segue da tempo, un uomo in nero che lo pedina senza sosta, Tobias una sera ne ha abbastanza e lo insegue fino all’interno di un teatro, tra i due nasce un duello verbale piuttosto acceso poi il tizio tira fuori un coltello, lo scontro è inevitabile e il persecutore viene colpito a morte.
Tobias ancora non si capacita del fatto che da uno dei palchi del teatro compare una seconda figura, uno spettatore nascosto nell’ombra e coperto da una maschera che inquieta, il tizio scatta le foto che mostrano l’omicidio, Tobias è stordito e non capisce cosa sta succedendo, ma ormai tutto giunge a conclusione, le luci si spengono con un sonoro clack e resta solo il buio…un’oscurità che sa di morte.
La sequenza ha una potenza visiva e sonora prorompente, il montaggio con i continui stacchi tra la sessione musicale e le scene dei pedinamenti è perfetto, la musica rock di Morricone fa salire il ritmo e la tensione, un overture che in pochi minuti segna il film in modo essenziale, presenta il fulcro del racconto e si chiude con il freddo suono di un incubo nascente.
Perchè dopo quella notte tutto cambia nella vita di Tobias, che tormentato dal misterioso individuo dovrà cercare di scoprire chi si nasconde dietro l’ombra, di chi è il volto sotto la maschera, mentre il suo mondo lentamente inizia a crollare, la moglie Nina (Mismy Farmer) che vuole scappare, gli amici che forse tanto amici non sono, la bella Dalia (Francine Racette) che compare nel momento sbagliato, e poi il burbero ma fedele Dio(mede) interpretato da Bud Spencer che gli consiglia un investigatore privato, un certo Arrosio (Jeanne-Pierre Marielle), insomma tutto un corollario di figure che si muovono su una scacchiera dai chiari connotati thrilling.
Ma come sempre nei film di Argento la parte narrativa appare quasi superflua, un giallo piuttosto lineare che serve come semplice sfondo, come base sulla quale costruire una messa in scena originale e accattivante, ricercata nella sua forma in continua mutazione, notevole è infatti l’uso della macchina da presa, ottimale la definizione degli spazi filmici, sondati in ogni anfratto con movimenti sinuosi e improvvise zoomate, era un Dario Argento che cercava ancora la “chiave” giusta ma che proponeva gia uno stile unico e personale, impreziosito dalla classica soggettiva del killer (quasi un marchio di fabbrica) gia proposta nelle due precedenti opere.
La forma piu del contenuto, questo è stato Argento fin dai suoi esordi, il vero punto di forza del regista romano è sempre stata l’estetica, la sua capacità di sorprendere con scelte visive inconsuete, le scene dei delitti rappresentavano il culmine del suo impianto scenico e anche in questo caso il suo talento non viene meno.
Ma se Quattro mosche di velluto grigio eccelle nella rappresentazione di un climax ansiogeno in costante ascesa, mostra invece il passo sul piano testuale, troppi i personaggi chiamati in causa, alcuni sembrano buttati lì solo per inserire una piccola sfumatura ironica (non proprio riuscita), il postino che prende le botte, il vicino zoppo, la spasimante, gli stessi personaggi di Dio(mede) e del professore (Oreste Lionello) che non trovano accurato sviluppo, gli amici di Tobias che pare abbiano l’unico scopo di ampliare la tela dei sospetti nella dichiarata sfida allo spettatore a scoprire l’identità del killer.
Siamo nella dimensione del giallo classico che ad Argento interessa fino ad un certo punto, lui sogna orrori e feroci delitti, ci illumina con l’ipnotica sequenza della decapitazione, con lo straordinario incipit gia menzionato, con le scene degli omicidi, brutali viaggi in dimensioni altre, tra quotidiana routine assassina e labirintici inseguimenti fiabeschi, fino a chiudere con un finale dalla bellezza sospesa, in un esplosione di vetri infranti che danzano sulle note malinconiche della ballata di Morricone.
Voto: 7.5
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta