Regia di Grigorij Ciukraj vedi scheda film
Virtuosisticamente calligrafico e forse vittima di un romanticismo troppo esasperato, trova un autentico riscatto nella descrizione dell'amore fra i due naufraghi dove l'ispirazione ha la meglio sull'epico accademismo della messa in scena
Il quarantunesimo del 1956, è il secondo film girato da Grigorij Ciucraj (allora trentacinquenne) e uno dei primi esempi della corrente che fu definita del disgelo (quella insomma che permetterà poi al cinema sovietico di attenuare - se non di annullare del tutto - i rigori zdanoviani del realismo socialista e di trovare una strada più aderente al momento storico di riferimento in cui l’URSS stava cominciano a muovere i primi passi per aprirsi all’occidente.
In sostanza, è l’interessante rifacimento del più celebre (ma ormai anche il meno conosciuto e ricordato) “Sorok pervyj (L’isola della morte) girato nel 1927 da Jakov Protazanov, entrambi realizzati (sia pure con sceneggiature differenti) a partire da un romanzo di Boris Andreyevich Lavrenyov (“Sorok pervyj appunto) pubblicato nel 1924.
Il film non ebbe vita facile (nel periodo stalinista sarebbe stato oggettivamente impossibile realizzarlo) ma i tempi meno rigidi che vedevano Kruscev al potere resero invece possibile l’impresa nonostante che la storia fosse poco allineata all’ideologia corrente ancora strettamente osservante dei dettati del Partito (credo infatti che il regista sia riuscito ad aggirare le maglie ancora strette della censura, grazie a un finale in cui l’indottrinamento teorizzante del pensiero, finiva per avere la meglio sul sentimento, e quindi in qualche modo questo permetteva di rimettere le cose a posto dentro a un’opera come questa che per il resto privilegiava invece il romanticismo espanso della storia e l’impianto spettacolare della narrazione (il regista sarebbe riuscito meglio nell’intento di far soffiare un vento veramente nuovo, con l’opera successiva (Cieli puliti) dove con maggior determinazione e chiarezza arriverà davvero a rinnegare il mito dell’eroe rivoluzionario per sposare invece una più umile, convincente, apolitica visione che privilegia l’analisi dei casi umani dei suoi protagonisti.
Tornando a “Il quarantunesimo”, il dramma narrato dal regista (che è poi quello che scoppia nell’animo della protagonista rivoluzionaria convinta, tormentato da due opposte concezioni contrastanti che cozzano fra loro: sentimento e coscienza) è ben calibrato nella sua progressione drammatica (Ciucraj dimostra di conoscere molto bene la lezione dei grandi maestri del cinema sovietico che lo hanno preceduto anche se poi non riesce a svincolarsi del tutto da certi cascami intrisi di un sentimentalismo troppo accentuato che un poco nuoce alla visione dell’insieme rendendo così l’opera prigioniera di un eccesso di didascalismo. patetismo.
Come scrissi già a suo tempo nel mio commento breve, è insomma una pellicola virtuosisticamente calligrafica (spettacolare l’ambientazione in esterni e bellissima la fotografia opera di un ispirato, geniale operatore come era appunto Sergej Uruševskij che qui realizzerà un piccolo capolavoro di sensibilità figurativa). Il tutto, giocando soprattutto sulle nuance avvolgenti del colore ocra declinato in tutte le sue sfumature e che spesso si addolcisce virando verso il prezioso giallo reso dorato dalla luce abbacinante del sole che rende quasi viva la sabbia del deserto (e le sue dune) che rappresenta la parte più consistente dell’ambientazione in esterni del racconto (di particolare efficacia, le sequenze finali – sorprendenti e durissime - realizzate con un impasto cromatico costruito su una tavolozza di tenuissimi colori davvero insoliti per la tragica conclusione di una storia ad alto tasso emozionale come questa). In parte vittima di un romanticismo troppo esasperato, il film trova però ampio riscatto nella felice descrizione dell’amore (impossibile) fra i due protagonisti, dove l’ispirazione (la spontanea delicatezza della mano del regista) ha la meglio sull’epico accademismo di alcune parti della messa in scena. Se infatti è abbastanza prevedibile e scontato il conflitto fra l’amore e il dovere, altrettanto non si può dire – e per fortuna – della tenera sobrietà con cui viene trattato questo argomento che rischia spesso di far cadere il tutto nel patetico, ma riesce (quasi) sempre a rimanere ai giusti margini di distanza che gli impediscono di caderci dentro.
Efficace anche il montaggio fatto di campi e controcampi in rapidissima successione, di ampie panoramiche sul paesaggio alternate a repentini sussulti che portano in primo piano l’intenso pathos dei volti dei suoi protagonisti.
Vertiginoso l’uso dei carrelli e dei dolly realizzati coni una cinepresa che spesso sembra voler accarezzare non solo le figure umane ma anche quelle dune spesso mosse dal vento.
L’efficace recitazione degli attori è giustamente tutta in sottrazione (e volutamente sottotono). Totalmente corrispondete alle intenzioni del regista insomma).
Passato con successo dal decimo festiva di Cannes (1957), si aggiudicò meritatamente il premio speciale della giuria che gli aprì la strada per una distribuzione capillare che gli garantirono un discreto esito anche commerciale e un caldo apprezzamento da parte del pubblico e della critica.
SINOSSI (ATTENZIONE SPOILER)
Durante la rivoluzione Russa, un gruppo di soldati dell’Armata rivpòuzionaria affamati e stanchi, sopravvissuti a uno scontro con i cosacchi, stanno avanzando a fatica nel deserto del Kara Kum. Tra loro c’è Marjurka la migliore tiratrice del reparto che con il suo fucile ha già ucciso 40 ufficiali zaristi. Sparando il suo quarantunesimo colpo però, la ragazza fallisce, e la sua mancata vittima le viene affidata in custodia come prigioniero. Insieme raggiungeranno il lago di Aral (adesso quasi del tutto prosciugato a causa dell’intervento criminale dell’uomo che ha deviato i fiumi che lo alimentavano) che devono attraversare in barca scortati da due soldati, ma verranno travolti da un ‘improvvisa tempesta che fa ribaltare la fragile imbarcazione. I due giovani si salvano e raggiungono a nuoto la riva di un’isola. Il giovane ha la febbre alta e la ragazza lo cura amorevolmente. La tenerezza che ornai li unisce, ben presto si trasformerà in un amore ricambiato. Ma l’irruzione sull’isola di altri bianchi (così venivano chiamati gli uomimi dello Zar) romperà inevitabilmente l’idillio e… non voglio svelare altro: anticipo soltanto che (come peraltro già ampiamente suggerito dal titolo) arriverà anche la quarantunesima vittima, e quella sarà appunto la tragica conclusione della storia.
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