Espandi menu
cerca
...se incontri Sartana prega per la tua morte

Regia di Frank Kramer (Gianfranco Parolini) vedi scheda film

Recensioni

L'autore

scapigliato

scapigliato

Iscritto dall'8 dicembre 2002 Vai al suo profilo
  • Seguaci 136
  • Post 124
  • Recensioni 1368
  • Playlist 67
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su ...se incontri Sartana prega per la tua morte

di scapigliato
10 stelle

Nasce Sartana. O meglio, nasce il Sartana ufficiale, quello di Parolini, declinato poi da Carnimeo. Nasce nei canyon fuori Roma, tra la Magliana e Villa Mussolini. C’è chi lo considera il primo Spaghetti-Western oscuro e cupo che ne inaugura la solidissima vena nera, ma forse questi non ricordano il “Django” di Sergio Corbucci nel 1966 e “Requiem per Un Gringo”, “Joko: Invoca Dio e Muori” e “Yankee” oppure “Quella Sporca Storia nel West”, tutti del 1968 come il Sartana di Parolini. Ma è anche vero che se il cinema non è una scienza esatta, ancor meno lo è il mondo dello spagowestern, la cui prerogativa è la bizzarria, l’insolito, la rottura con gli schemi, la parodia, e così via. Sicuramente la componente funebro-cimiteriale arriva con “Django”, il cui coevo “Navajo Joe” è ulteriore portatore di un’insolata violenza. Entrambe le pellicole di Corbucci anticipano i gusti che il western all’italiana susciterà da lì a breve. Gusti che nella loro generalizzabile “versione nera” si declinano ulteriormente nel filone prettamente gotico, quello sadico-violento, quello giallo, e quello gotico-cimiteriale. Queste definizioni che lasciano comunque il tempo che trovano, possono anche solo scolasticamente bastare per inquadrare i caratteri principali dei vari filoni ed individuarne così le differenze e le somiglianze. A differenziare il gotico tout-court come “...E Dio Disse a Caino” da un gotico-cimiteriale come “Django” è sostanzialmente il fatto che nel western-horror di Margheriti predomina uno stile, un’atmosfera, una soluzione visiva e linguistica nera, oscura, da incubo, dal tratto onirico e ineffabile, mentre nel film seminale di Corbucci predomina un’iconografia cimiteriale, una messa in scena scarna, grave, disperata e pure violenta. Quindi li differenzia una dicotomia filmico/profilmico, quasi una dicotomia impressionismo/espressionismo. Tra questi due estremi estetici possiamo inserirvi, sempre più per gioco che per zelo critico, il sadico-violento, in cui ciò che lo definisce tale è l’apporto di scene estreme e violente, di gran crudeltà e perfino di una certa granguignoleschità per nulla accennata, e poi il giallo, dove ciò che conta è l’intreccio ad enigma coadiuvato, a seconda dei casi e della fattura registica, da buoni inserti neri, scene misteriose e certa tensione da thrilling. Da questa riflessione, il Sartana di Parolini può essere ben inserito più nel gotico-cimiteriale che nel gotico puro. Infatti, in questa prima apparizione di Sartana, all’atmosfera fantastica e agli elementi soprannaturali che lo fanno gotico viene accostata tutta un’iconografia nero-grottesca che lo rende accattivante nel suo appeal bizzarro. Tante bare, tante morti, i cimiteri, il gioco d’azzardo quindi le carte, i trucchi, gli aggeggi sofisticati, il nero look del protagonista, e così via. Ecco perchè “Se Incontri Sartana Prega Per la Tua Morte” non può essere il capostipide della vena nera dello Spaghetti-Western, bensì una delle sue opere più codificanti la declinazione gotica.
In questo bellissimo film di Gianfranco Parolini, che veniva da tre modesti piccoli spagowestern anomali per natura del loro regista, Gianni Garko rispolvera un personaggio che aveva interpretato nel ’66, che era però senza mezzi termini il cattivo di turno che se la doveva vedere con Anthony Steffen. Il film di Alberto Cardone, il primo della “trilogia della puntata”, non c’entrava nulla con il successivo di Parolini. Suona quindi un po’ strana l’affermazione dell’equipe di scrittori di “Se Incontri Sartana...” che sostiene di aver inventato il nome del protagonista pensando alla padella abruzzese, che si dice appunto sartana, quando già nel ’66 proprio Gianni Garko già così chiamava il suo personaggio. Ma queste piccolezze non fanno la grandezza dello spagowestern. A farla è sempre il risultato finale che batte 10 a 1 tutte le noiose e a volte patetiche avventure produttive. Ed il risultato finale del film di Parolini è un’altro importante tassello nella formazione di un’anima tutta italiana per il western europeo, che all’epoca ormai non è più né tedesco né esclusivamente spagnolo, bensì italo-iberico, con netta prevalenza del primo termine. Ecco che ex novo il Sartana di Garko è apparentemente il tipico gambler del West, un’elegantone da saloon, un uomo a cui piacciono il gioco, le belle donne e la bella vita, accessoriato da curiosità bizzarre come la Derringer a quattro canne con il tamburo personalizzato che fa anche da trottola, il look funesto con spolverino e cappellaccio neri come la morte, ed un lapidario e cinico spirito sociale. Gianni Garko ne parla come un Mandrake del West, non solo per il look quanto anche per le abilità illusorie quasi prestidigitatorie. Ma la cifra autoriale del pesonaggio, grazie alla quale sale nell’olimpo degli antieroi spagowestern come lo straniero, Django e Ringo, che come Sartana verranno più e più volte riutilizzati anche apocrificamente, sta tutta nel tratteggio ultraterreno che ne fa il regista. Fin dal suo atto di nascita, la prima celebre sequenza che anticipa i titoli di testa, Sartana ci appare come un essere trascendentale, non di questo mondo. Entra in scena dal nulla, seguendo una diligenza i cui passeggeri lo apostroferanno come “fantasma” sostituendo lo spettatore che già impara come considerare questo nuovo personaggio. In seguito, dopo l’attacco mortale alla diligenza in cui anche Sartana viene colpito, il nostro si rialza all’improvviso generando stupore tra gli astanti. Gli chiederanno se è uno spaventapasseri. Risponderà che è il loro becchino. Poi li fa fuori tutti, tranne il loro capoccia Klaus Kinski che se ne stava nascosto tra le rocce. Già qui con i tre termini con cui viene definito, fantasma/spaventapasseri/becchino, ben individuiamo la portata soprannaturale del nuovo Sartana che sembra essere arrivato né dall’Inferno né dal Paradiso, casomai dal Limbo, o comunque da un luogo dove regna solo la Morte senza ulteriori accezioni, senza nessuna interpretazione religiosa o manichea. E questi segnali, quelli della sua “sartanità”, sono sparsi lungo tutto il film arricchendolo di un coté nuovo e apprezzato. Nuvole di polvere, soffi di vento improvvisi, suoni misteriosi di un carillon, bare, tombe e croci che messi tutti insieme diventano i co-protagonisti della pellicola. Ci sono sequenze puramente orrorifiche come il duello nella bottega del becchino (quello vero, interpretato da Franco Pesce) tra Gianni Garko e Klaus Kinski, oppure tutte quelle volte in cui Sartana terrorizza psicologicamente William Berger con quel carillon di cui non si conosce provenienza. Ma anche il tanto sospirato momento dell’apertura della bara nel covo di Tampico, ovvero Fernando Sancho, si rivela in tutta la sua atmosfera nera come un inserto decisamente macabro.
La forza del Sartana di Parolini sta tutta in questo sapiente gioco tra bizzarria meccanica e paranormalità narrativa, se me li si passa come termini adeguati, in cui la ludica ostentazione della gag prestidigitatoria e l’intrusione del misterioso e del fantastico ben si amalgano risultando così l’effetto nuovo ed originale che consentirà al film di generare epigoni degni e indegni, ma sicuramente tutti di notevole impatto visivo ed immaginifico. Lo stesso Parolini seguirà, esasperandola, questa sua indole giocosa confenzionando l’anno dopo quello che può essere il manifesto di questa sua particolare estetica, ovvero “Ehi Amico c’è Sabata... Hai Chiuso!”. La rivoluzionarietà di Parolini si misura con le sue trovate, con le sue iper-coreografie, con la sua circensità narrativa. Sergio Leone, non proprio apprezzando il lavoro di Parolini, ne parlerà come di “parolinate”. Ma ciò che conta è che tra le nostre mani, davanti ai nostri occhi c’è un film che sprigiona originalità da tutti i pori. Purtroppo è Klaus Kinski a non essere usato appieno. Il suo ruolo, che per altro l’attore polacco interpreta con la sua solita classe, non interagisce nemmeno in una sola veloce occasione con altri attori. Se noterete bene Klaus Kinski è sempre in scena da solo. Anche nella scena del barbiere, che tra l’altro è sceneggiata benissimo, una delle scene migliori, Kinski non c’è. C’è una controfigura che tiene sempre il cappello chinato sul viso. L’attore inverosimilmente presente sul set con gli altri attori (lo conferma il Giusti riportando sul suo dizionario che tutti si ricordavano l’arrivo di Kinski sul set), non girerà mai una scena con altri, ma sempre da solo. Questo, facilmente intuibile durante la visione, lascia un po’ l’amaro in bocca nella scena del duello tra le bare, nella bottega del cassamortaro. Ma questa resta ugualmente, insieme ad altre, una delle scene più memorabili. Di tale impatto visivo è anche il massacro di William Berger alla cava dove secca tutti i suoi uomini con una mitragliatrice imprestatagli da Django, oppure un altro suo massacro, sempre con la machine-gun famosa, ai danni di Sancho e dei suoi messicanacci. Così come il duello finale tra lui e Garko, sempre in quella bottega oscura e cimiteriale che diventa così il locus horris atto a virare potentemente al nero tutta la vicenda. Vicenda che nera già lo è, e che in questa sua peculiarità innovativa abbina anche la ripresa/deformazione del canone leoniano di “Per Un Pugno Di Dollari”. Anche Sartana infatti, arrivato dal nulla come Clint Eastwood, seppure con segno diverso, si mette tra due bande rivali. Rovina i piani sia al corrotto Gianni Rizzo che per frodare la banca si serve di William Berger, qui al top della sua cattiveria con tanto di cocaina al seguito da sniffare, sia alla banda di banditi messicani capeggiata da Fernando Sancho. In più, Sartana, che aveva ormai capito quanto a Berger piacesse uccidere sparando in testa ai suoi avversari, si munisce di una targa cimiteriale in metallo da porre sotto il cappellaccio nero. Risultato: finge di essere morto, un po’ come Eastwood nello scontro finale con il Ramón Rojo di Volonté, per tornare e inquietare con la sua spettrale presenza. Ma mentre qui è quasi giustificata la rentreé di Sartana redivivo, non lo sono affatto quella iniziale e tutte le successive “spiritate”. Segno questo che la trascendentalità del personaggio non era involontaria, ma fortemente voluta dal regista, anche se non dagli autori che sostengono che Parolini modificò totalmente il loro lavoro, inizialmente affidato a Guido Zurli. Questo a ulteriore conferma dell’estro creativo di Parolini, colpevole di aver creato il più sulfureo degli antieroi italowestern, declinato nelle versioni carnimeiane in un epigono jamesbondiano protagonista di trame più gialle che nere. Resta sempre il mistero di chi creò il nome. La coppia Gastaldi-Salerno che scrisse “Mille Dollari sul Nero” prendendo lo spunto dal generale Santana che combattè la Guerra di Secessione, oppure al trio Piccioni-De Santis-Cagnacci che scrissero lo script alla base del lavoro paroliniano e che avrebbero preso il nome “sartana” dalla padella abruzzese? Io opto per la prima soluzione, anche pechè non ci si spiegherebbe come mai già nel ’66 c’è un Sartana negli Spaghetti-Western, guarda caso interpretato proprio dal futuro Sartana soprannaturale: Gianni Garko. Però almeno, un po’ di mistero resiste...

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati