Regia di Franc Roddam vedi scheda film
Una fotografia impietosa e puntuale del disagio privato e sociale di una generazione, di quel malessere profondo che tarpava ali e fantasia dovuto a una società retriva e ancora fortemente vittoriana nella concezione generale delle cose, come era quella dell’Inghilterra di quegli anni ancorata ai suoi sani principi “reazionari”.
Il tempo non ha lasciato completamente indenne Quadrophenia, ma rimane comunque ancora oggi una pellicola che a mio avviso può essere definita a buon diritto “storica e leggendaria”. E’ stato infatti proprio questo il titolo - davvero “fondamentale” per la cinematografia di tutti i tempi - al quale può essere pienamente riconosciuta l’intuizione (e il merito) di aver utilizzato al meglio il linguaggio del rock, fino a farlo diventare lo strumento più adeguato e pertinente per descrivere la realtà di un periodo così ben definito e carico di fermenti, capace di mettere in evidenza e in assoluto primo piano con le sue fibrillazioni musicali, non solo le aspirazioni, ma anche il disagio (e le contraddizioni) di una generazione tanto mitizzata ma ormai così lontana dal presente, da sembrare quasi la proiezione utopica di un sogno che non si è mai pienamente realizzato.
Il regista Frank Roddam ha infatti ben mediato proprio attraverso le immagini, tutte le suggestioni scaturite dalle vibrazioni di una colonna sonora di stratosferico valore, per costruire un racconto (e una “dannazione”) che ha il suo punto di forza (e la sua principale fascinazione) nelle suggestioni che scaturiscono proprio dal sound adrenalinico creato da Peter Townshend e dagli Who, che resta la cosa più importante e coinvolgente, e rappresenta proprio non solo la vera innovazione, m anche la “provocazione” più potente e destabilizzante di quegli anni. Perché la musica degli Who risulta adesso più che mai imprescindibile per il film e per l’evoluzione delle cose, con quella sua continua, costante esortazione che acquisiva il senso di un dichiarato invito a vivere spudoratamente e fino in fondo la propria vita, anche se questo significava poi dover fare i conti con la violenza limitante e vessatoria dell’ordine costituito e con le imposizioni della famiglia troppo conservatrice e un po’ castrante. Un impatto emotivo fortissimo dunque, sostenuto dalla superba qualità di una partitura definita e immortalata dentro a un precedente vinile struggente e straordinario composto nel 1973, come è appunto quello che rappresenta proprio la base oggettiva di questa interessante operazione con la quale i Who (e il suo mentore) nel 1979 sono voluti tornare a rivisitare l’Inghilterra dei primi anni ’60, esattamente quelli in cui il loro complesso si era affermato clamorosamente insieme ai Beatles, ai Rolling Stones e a tutte le la altre espressioni della rivolta giovanile musicale e non, per celebrarla a loro modo, magari con qualche nostalgia, ma senza alcun rimpianto.
Film dunque molto interessante soprattutto in prospettiva perché resta una fotografia impietosa e puntuale del disagio privato e sociale di una generazione, di quel malessere profondo che tarpava ali e fantasia dovuto a una società retriva e ancora fortemente “vittoriana” nella concezione generale delle cose, come era quella dell’Inghilterra di quegli anni e dell’altrettanto conservatorismo feroce della famiglia inglese, ancorata ai suoi sani principi “reazionari”.
Sulla falsariga delle canzoni firmate da Pete Townshend, il film ci delinea dunque il ritratto di un tipico figlio del novecento (o meglio dei primi decenni della seconda metà di quel secolo) attraverso una storia (per molti versi di “formazione”) - che è poi quella di una ribellione - e dell’impulso ad infrangere le regole che si sviluppa e si espande a gruppi giovanili sempre più ampi e determinati, testimonianza evidente della ricusazione di una omologazione orizzontale che la società imponeva a quei tempi ancora più di adesso, soprattutto nel e col lavoro.
Qui si parte da Jimmy, un fattorino poco più che adolescente, incompreso e ribelle anche in famiglia, che si lega con appassionato, idealistico vigore, al gruppo giovanile in cui si riconosce maggiormente e nel quale finirà per imbrancarsi “corpo” e “anima” fino alla “consunzione”. E’ l’unione infatti che fa la forza, e questo impone necessariamente di aggregarsi e di riconoscersi in un branco che può diventare “appartenenza condivisa”.
I ragazzi inglesi si raggruppavano in bande per sentirsi uniti e sodali, parte fondante di una comunità “di parte” che pretendeva una aggregazione ben definita e riconoscibile anche nell’atteggiamento e nel vestiario che li faceva sentire forti e liberi allo stesso tempo, capaci di sfidare il mondo e le convenzioni.
Fra queste bande, c’erano da una parte i Mods (così chiamati perché vestivano alla moda, “arrabbiati” rampolli di derivazione soprattutto piccoloborghese) e dall’altra – con assoluta contrapposizione anche ideologica - i Rockers, gruppo di estrazione proletaria, e come tale più tosto e violento, i cui aderenti vestivano solitamente giubbotti di pelle nera.
La guerra dei due gruppi “avversari” (che era serrata per più di una ragione, e si consumava in quel tempo soprattutto nelle strade di Brighton, con una inarrestabile cronaca settimanale di violenze e di scontri quasi da bollettino di guerra che riempì le pagine dei giornali dell’epoca con vasta eco in tutto il mondo occidentale) rivive così nella rievocazione nitida e secca di una rilettura appassionata (e anche un po’ malinconica) fatta con questa pellicola che nel 1979 appunto il regista realizzerà insieme a Townshend e il suo complesso che figurano anche fra i produttori.
Ma vediamo un po’ meglio chi erano e cosa rappresentavano questi gruppi.
Quello dei Mods era certamente formato da persone più portate verso la ricerca di una realizzazione personale (e quindi in fondo sostanzialmente anche più “individualisti”): essere un Mod richiedeva il rispetto di precisi “codici” però, quello per esempio di muoversi utilizzando la vespa o la lambretta con gli specchietti (invece che con le solite vecchie “Norton” e “BSA”, ancora grandi moto, ma troppo legate al passato), di vestirsi rigorosamente in un certo modo (che adesso forse si potrebbe definire “un po’ fighetto”) e impostare la propria vita esattamente in quella direzione di esteriorità, tutti insieme ovviamente, ma alla fine ciascuno soprattutto per i propri bisogni e ideali, con dei modelli di riferimento e dei miti da rispettare sempre e comunque.
I Rockers erano invece meno fantasiosi, meno artisti e indiscutibilmente più portati al machismo ed alla violenza come già accennato sopra. Una grande differenza anche di formazione strutturale e culturale oltre che di posizionamento sociologico quindi, in base al quale già in partenza Jimmy pur nella sua ribellione, non poteva che diventare “uno dei Mods”, bisognoso com’era di acchiappare un’affermazione personale nella vita che aveva già provato a perseguire senza successo prima di aggregarsi. Due gruppi decisamente antitetici dunque, ma uniti alla base da una comune volontà di infrangere i tabù imperanti e le convenzione imposte dalle regole sociali e familiari, per tentare di affermarsi “ciascuno a suo modo”, ma comunque con nuovi ed inediti “modelli comportamentali”. Questo era fondamentale per entrambi (scardinare dalla base società e convenzioni), così come avevano in comune fra di loro un’altra “ritualità”, quella delle pasticche e dell’”impasticcarsi”. Non bastava infatti portare la cravatta giusta e l’impermeabile ed avere i capelli tagliati in un certo modo, od ostentare in maniera trasandata il giubbino di pelle : per darsi coraggio, per affrontare certe situazioni , per “riconoscersi” meglio e per dimenticare lo squallore delle loro vite suburbane, trascorse in case comunque tutte uguali di quartieri che sembravano non presentare alcuna via d’uscita, si ricorreva sempre più spesso ai cosiddetti “cerchi farmaceutici”:… pasticche, molte pasticche (gialle, rosse, blu) che precederanno l’inganno prima della marijuana e poi della droga, necessarie per sostenere il ruolo e la parte e per digerire tra le altre cose anche l’autoinganno che pure c’era anche se non ammesso e non considerato, la grande truffa mistificatrice dei più, che nel film di Roddam può essere sintetizzata in un altro personaggio centrale, quello di Ace Face (che un grande Sting qui al suo esordio sugli schermi tratteggia con efficace vigore) il più “grande” di tutti i Mods, il ballerino migliore, il più bello, quello con la moto più figa. Il più ribelle di tutti .. quello insomma da emulare e da venerare… ma solo fino a quando Jimmy, il vero protagonista della nostra storia scoprirà invece che si tratta di uno ritratto “inglorioso” perché il suo idolo “puro” e adamantino nelle parole, nei fatti si sta invece abbassando a fare proprio uno di quei lavori umilianti (il facchino in un albergo, il mestiere di quelli che portano le valige ai ricchi clienti sopportando passivamente l’umiliante situazione del servilismo, mance comprese) a cui lui aveva invece rinunciato scientemente per affermare sé stesso nel gruppo, connotando così con prepotenza la sua genuina voglia di essere diverso fino in fondo per sfuggire davvero al sistema e provare una volta per tutte a “stritolarlo”.
L’amaro destino di Jimmy con la caduta delle illusioni, prefigura già le delusioni che arriveranno implacabili negli anni successivi. E’ infatti così che il giovane scopre (e poi si rende conto) che l’idolatrato capobanda è un bugiardo che si adatta di giorno a restare totalmente compresso nel sistema, ma anche che l’appartenenza ai Mods non può da sola riempire la sua vita soprattutto adesso che ha capito che persino la ragazza amata lo ha tradito. Fine dei sogni e dell’utopia insomma, crollo totale delle aspirazioni. Cosa rimane allora di una (im)possibile fuga da una realtà già di per sè squallida, mai appagante e priva di prospettive, se si perde la fiducia nella possibilità di immaginare una vita migliore? Poco o nulla davvero se ci si rifugia nel nichilismo della propria delusione quando si torna a sentirsi nuovamente soli ed impotenti.
Il film è dunque la dolorosa testimonianza del rifiuto degli schemi e delle regole del passato per provare ad inventarsi un futuro difficile da immaginare e peggio ancora da costruire davvero. Il rifiuto e la negazione urlato da una intera generazione dalla quale è poi nata la controcultura di quel periodo, raccontato focalizzandosi non solo sulle speranze, ma anche sui risvolti amari delle conseguenze perché – sembra voler veicolare il messaggio - non sempre la non accettazione e la fuga portano al sicuro e ad una soluzione realmente appagante. Spesso (o quasi sempre) non basta respingere tutto, rigettare ogni cosa e fuggire per approdare poi davvero da qualche parte e con successo, per realizzarsi o sentirsi parzialmente soddisfatti, o comunque meno insicuri e incerti…. E quando si arriva a comprendere che nemmeno un gruppo può cambiare quello che effettivamente siamo perché la forza che sembra sorreggerci è fittizia e provvisoria, è davvero difficile resistere all’urto, al peso insostenibile dell’evidenza un po’ fallimentare…
Nemmeno il nostro protagonista della storia può dunque reggere indenne all’infrangersi del suo piccolo grande sogno che lo respinge prepotente nel passato: tornare al suo lavoro, rientrare dentro la famiglia e le sue regole, significherebbe per lui l’ammissione di una sconfitta devastante, esattamente come devastante è il senso della disillusione di cui non è possibile sopportare il peso… ed ecco che allora che il piccolo grande Jimmy invece di tornare indietro, sceglie di andare avanti… ed a suo modo prova a volare… inforca la motocicletta e fa un romantico salto dalle bianche scogliere, come un piccolo Werther o uno Jacopo Ortis del rock (Tullio Kezich) che è tutt’altro però che una vittoria.
Nella raffigurazione dataci del personaggi dall’allora giovane attore Phil Daniels, Jimmy è davvero un eroe da canzonetta che emana un fascino speciale e induce alla tenerezza. E’ un ragazzo che all’inizio sembra quasi un pezzo di legno, ma che nel corso del film e degli eventi, si delinea sempre più con una personalità molto definita, davvero in perfetta sintonia con la figura che è stato chiamato a rappresentare sullo schermo, con il contributo ovviamente di un regista sensibile come Roddam non solo bravissimo a impaginare le immagini, come si è già visto e detto, ma anche a scegliere e supportare con la necessaria, particolare cura tutti gli interpreti: oltre ai già citati Sting e Daniels, ci sono infatti anche tutti gli altri, compresi quelli più secondari e marginali, tutti fondamentali e “perfetti” per dare la giusta dimensione all’ambiente e definire il quadro con la necessaria realistica portata di una immedesimazione totale.
Ma è soprattutto musica il film: l’ho già detto e lo ripeto con forza. L’eccezionale, incisivo impatto di un sound indimenticabile è ciò che fa davvero la differenza nel creare un impatto emotivo fortissimo con lo spettatore. Una musica molto teatrale e pregnante quella di Quadrophenia, così straordinaria da risultare persino “discreta”, nel senso che è attenta e precisa allo svolgersi dei fatti sempre delineati e definiti con nitida precisione, e che proprio nel suo essere “grande musica”, non schiaccia mai la storia, ma contribuisce semmai a renderla più comprensibile ed epocale, a conferma della validità assoluta di un gruppo davvero unico e speciale come quello degli Who, formato da un quartetto di eccellente levatura: Keith Moon in primis (che è stato un batterista che pochissimi altri potevano eguagliare – ieri come oggi – per la furiosa energia percussiva che possedeva). Un personaggio davvero impareggiabile nella vita come nella musica, coerente fino alle estreme conseguenze e prematuramente scomparso per un avverso destino (quando il film arrivò sullo schermo non era infatti più fra noi, visto che è stato strappato alla vita il 7 settembre del 1978). Subito dopo però; Pete Townshend, una delle migliori menti del Rock, tanto eccellente che il suo essere stato anche un fenomenale chitarrista passa quasi in secondo piano visto che ci troviamo davvero davanti a un artista a tutto tondo, grande autore di musica, di libri e…sì, permettetemi di dirlo… anche di film (perché qui dentro c’è davvero tutta la sua anima). Ma non sono certo da meno gli altri due componenti altrettanto grandiosi: John Entwistle, bassista e architetto, immobile ma basilare colonna portante del complesso, e soprattutto Roger Daltrey, la “voce” e l’immagine più iconografica del ricordo visivo (ancora attivo e sulla breccia, sarà a Firenze al Teatro del Maggio Musicale intorno al 20 marzo di quest’anno per presentare in esecuzione live l’intera colonna sonora di un altro traguardo fondamentale del gruppo, lo straordinario Tommy già interpretato sullo schermo con al preziosa regia di Ken Russell).
Per finire, insomma, io credo che basterebbe un pezzo come My Generation (e ritorno ancora e sempre al gruppo) per capire davvero tutto.
La storia di Jimmy (raccontata “a suo modo” da Ernesto de Pascale, esimio critico musicale recentemente scomparso a cui intendo così rendere anche un affettuoso, postumo omaggio di riconoscenza).
Non era facile la vita per Jimmy. Il mondo che lo circondava non era il suo. Quando tornava a casa c’era sempre qualcosa che andava storto. Neanche un rispettabile posto da “ragazzo alla porta” del principale albergo delle sue parti lo rendeva felice. A casa era incompreso. Jimmy non era il solo, come lui, molti altri. Ragazzi provenienti da famiglie per bene, né poveri né ricchi, ragazzi educati ai quali era stata data una certa sicurezza. Qualcosa, però, non funzionava.
A quell’epoca Jimmy guadagnava 3 pounds e 10 pennies (questo è l’attuale valore equivalente, naturalmente!) alla settimana. Il suo ultimo acquisto, un abito visto sulla rivista Tailor and Cutter, ne costava da solo 35. Diceva orgoglioso: “Quando lo indosso mi sento totalmente diverso. E’ come se la mia vita cominciasse da capo”.
Il senso di depressione, il sentire la necessità di essere padroni di qualcosa, riempiva la testa del nostro e di tanti altri ragazzi come lui. Per troppo tempo si erano sentiti dei lunatici, additati come stravaganti nelle metropolitane che da Shepeerd’s Bush portavano in pieno centro. Adesso era invece chiaro che il loro stile, inimitabile se pur estremamente semplice, era la chiave di volta. Adesso erano qualcuno, si riconoscevano e non avevano più paura di essere additati. Adesso erano i “Mods”.
Ma questa è la storia già del 1965, che è poi l’anno descritto dallo stesso Pete nella sua “Quadrophenia, quando i “Mods” sono all’apice del movimento, quando il giovane Pete Townshend scrive con gli appena nati “The Who”, l’inno del movimento, My Generation.
Questa storia ha, però, dei precedenti che vanno raccontati. Nel 1960 Mark Feld da Forest Hill, ha solo 12 anni. Ricorda di quei giorni: “Senza uno specchio mi sentivo perso. Mi lavavo ogni ora, una doccia due volte al giorno; per farlo usavo colonia Vart di Carvin. Non c’era niente di casuale nel mio modo d’essere. Perfino d’estate mi sentivo più a mio agio se indossavo un abito di tweed e un impermeabile.” Per Mark non era una questione di uniformi come lo era, proprio in quei giorni, per i Teddy Boys alla Gene Vincent. Per Mark era un’esercitazione di stile, puro narcisismo da dandies. Il giovane Feld diventa un’influenza locale. Lo conoscono in pochi ma, non appena si muove, tutti lo additano. Lui pare non curarsi degli altri. “Scopro in poco tempo – racconta – che solo nella mia zona, Forest Hill, siamo in sette. Poi diventiamo venti. Tutti fra la mia età e i quattordici anni, tutti ebrei, piazzati in casa con i genitori, nessuno impegnato con il lavoro, poco interesse per la scuola. L’unica cosa veramente importante è l’abito.”
La musica, le pillole, gli scooters non sono ancora arrivati sulla scena e per un po’ non si fanno vedere. E’ il 1962 quando Mark Feld appare sulle pagine della rivista Town: indossa una giacca tre quarti con spacchi laterali alti, un impermeabile lungo di pelle nera, un fazzoletto gli spunta dal taschino della giacca e la camicia è di quelle con colletto duro e stondato sulle punte. L’effetto è fortissimo ma assolutamente inclassificabile. E’ qui che spunta il termine Mod: per i ragazzi non fa differenza. E’ una classificazione e basta e a loro non interessa. E’ qui che musica, immagine, vita di strada, ideali, falsità e tutto il resto, si mixano in un unico grande calderone: quello che genera il fenomeno di massa.
Da Richmond emergono i “Rolling Stones”, amanti del blues, che vengono subito adottati dai “Mods” locali e supportati mentre il loro diciannovenne manager, Andrew Loog Oldham, non fa niente per mettere chiarezza contando sulla forza autopromozionale della ghenga locale. Non appena il gruppo raggiunge il successo nazionale i “Mods” li mollano per gli “Yardbirds” capitanati dal biondo Keith Relf e con uno spaurito Eric “Slowhand” Clapton alla chitarra solista che ben presto saluta tutti per tornare al suo vero amore: il blues. Nascono programmi tv come Ready Steady, Go!, un “must” del sabato pomeriggio, basicamente un programma televisivo mod; anche Carnaby Street, per un breve tempo, viene additato come Mod.
Mark Feld continua con i suoi ricordi: “Era il 1964 e la situazione mi sembrava prendere una cattiva piega. Io prendevo le cose con infinita serietà mentre i “Mods” dell’ultima ora mi facevano i pupazzi.” Quel che il nostro non capiva era che, anche per lui, come per tutti gli iniziatori, era venuto il momento di mettersi da una parte e guardarsi intorno senza troppo apparire… stava arrivando, insomma, il momento di Jimmy.
Jimmy, poi, a vedere bene, non era così distante da Mark: i due erano, in fin dei conti, coetanei, entrambi intorno ai sedici. Jimmy era solo più casinaro, più dentro il movimento di massa. Erano arrivate le lambrette, la musica, le pillole uppers e downers e lui aveva accettato tutto subito, così senza riflettere, solo perché tutto questo era parte della scena. Era anche lui, comunque, un puritano. Se a Carnaby Street cercavano di infinocchiare i turisti con i gadget di bassa lega lui e i suoi evitavano il luogo; avevano ampliato e migliorato il guardaroba con copriabiti simili a giacconi da guerra chiamati Parkas su cui cucivano colli di pellicce di volpe; usavano esclusivamente cravatte strette, scarpe di camoscio marrone o polacchine desert boots di marca Clarke.
Portavano i capelli corti e non appena si trovavano in prossimità di uno specchio potevano passare lunghi minuti a specchiarsi.
Qualcuno, fra gli amici di Jimmy, si dava mascara e si faceva il rigo nero agli occhi ma non vi erano implicazioni sessuali, era solo il desiderio di stranezza. Si dice anche che uno dei suoi migliori amici, un certo Bernard Coutts, non avesse accettato l’invito di una ragazza perché lei, in casa non aveva uno stendi pantalone con ferro da stiro. E la riga, si sa, deve essere fatta almeno una volta al giorno!.
Jimmy e i suoi amici arrivavano nel West End durante i fine settimana e vi rimanevano per trentasei ore filate. Gravitavano in clubs, bars, agli angoli delle strade e quando si sentivano sfatti si tiravano su con pillole chiamate Purple Hearts. A parte questo non facevano un bel niente. Ballavano fra di loro – le ragazze erano praticamente inesistenti – perché la musica batteva loro in testa. Sembravano senza emozioni, passivi a tutto fuorché al proprio narcisismo. Se c’era qualcosa che li galvanizzava era la musica di questo diciannovenne nasone e riottoso che si chiamava Pete Townshend. Il suo gruppo si era chiamato per un po’ “The High Numbers” poi decise che “The Who” suonava meglio, era più consono al movimento.
Il martedì sera era la loro serata fissa al Marquee Club di Wardour Street. Ed era, naturalmente, una serata speciale. Jimmy era sempre lì in prima fila e poteva vantarsi di essere loro conoscente. Sua sorella per un periodo era uscita con il bassista del gruppo, un tipo sempre taciturno e loro lo salutavano anche se forse neanche sapevano il suo nome. Mark Feld li andò a vedere una sola volta poi disse che in quel locale c’era troppo casino e che quei “Mods” si stavano comportando con uno stile troppo uncool, erano poco “stilosi”, diremmo noi. Gli “Who” sapevano il fatto loro: il batterista Keith Moon era un ragazzo forsennato e il suo stile di accompagnamento non aveva riferimenti, il cantante faceva roteare continuamente il microfono e più volte colpì qualcuno in testa nell’angusto spazio del club di Wardour Street. Del bassista, poi, abbiamo già detto. Pete, il chitarrista e mente del gruppo, dava l’impressione di essere monomaniaco: spendeva cento pounds la settimana in vestiti e si era fatto fare una giacca con la bandiera britannica, perfettamente in tono con la loro canzone Happy Jack. Keith, il batterista, vestita, invece, delle fantastiche magliette in stile Pop Art e nessuno fra i “Mods” presenti, riusciva a capire dove fosse riuscito ad ottenerle. Erano insomma, uno schianto!
Townshend era andato oltre: difficile dire se per ispirazione o per raziocinio, aveva scritto quella “My Generation” che recitava più o meno così: People try to put us down / just because we get around / thing they do look awful cold / hope I die before I get old. Da quel momento in poi, ricorda Mark Feld, il movimento cominciò a sfrangiarsi. Forse proprio per questo motivo, per scontare le sue colpe, Townshend avrebbe scritto otto anni dopo, nel 1973, “Quadrophenia”. Jimmy però non sapeva tutto questo, non sapeva nemmeno che sarebbe diventato il personaggio di quel “Quadrophenia” e neanche lontanamente immaginava la sua fine. Jimmy sapeva solo che troppe cose intorno a lui cominciavano ad essere apostrofate come Mod. Perfino i barbieri, i “Beatles”, gli attori e i nuovi libri. D’estate si migrava a Brighton così come oggi, più di quarant’anni dopo, da tutte le parti d’Europa si cala a Rimini per Pasqua. Allora e oggi, lo si faceva per cercarsi, per contarsi. Ma in quei giorni, in quel 1965 i “Mods” cominciano a diventare un fenomeno troppo serio per non creare contrasti fra bande e giovani di differente estrazione. Tra i veri “Mods” si insinuano centinaia di falsi, ragazzi violenti, uncool, direbbe Mark Feld, poco “stilosi”, diciamo noi. L’evento di massa porta perciò tante ritorsioni sociali con sé. Poco possono i veri “Mods”, di quelli come Jimmy, e degli altri venti della prima generazione, non resta più neanche il ricordo! Al Nord, nelle città industriali o giovani si incazzano pesantemente. Come spiegare loro la differenza fra veri e falsi “Mods”, fra casinari che urlano e si ubriacano nelle dance-halls, infastidiscono tutti nei weekend passati a Soho e quelli veri di soli pochi mesi prima? Al nord si formano gruppi agguerriti, si fanno chiamare “Rockers”, sono della stessa matrice dei “Teddy Boys”, solo più violenti e più poveri, per loro il Mod è un essere molle, inutile. Difficile dire se questi “Rockers” credono a quel che dicono: la loro filosofia è di terza mano, la brillantina nei capelli non ha nulla a che vedere con l’olio “STP” che si passava Elvis Presley o Jerry Lee Lewis la mattina, i loro abiti sono sdruciti, le giacche di pelle vengono dai mercatini di Salvation Army, i fregi sono stati cuciti dalle mamme la sera prima. Per mesi e mesi le due fazioni si scontrano settimanalmente sul lungomare di Brighton, lasciandosi Londra alle spalle, fornendo così gran rumore alla stampa e alla televisione. Nessuno capisce che così facendo si fa il gioco altrui. O forse qualcuno lo capisce: lo capiscono i gruppi come gli “Who” che vanno avanti per la propria strada, i veri “Mods” come Mark Feld, che se ne sta rintanato a First Hill a vivere la sua vita imparando a comporre canzoni, lo capisce Jimmy che non vuol proprio saper niente di tutte queste storie. “Cosa c’è che non va nella mia vita?” si domanda Jimmy. “Non c’è posto per me, non c’è posto più neanche fra i “Mods”, ora loro sono così diversi da allora! A casa sono uno zombie, gli “Who” da quando hanno avuto successo non mi salutano più e l’ultima volta che uno di loro mi ha rivolto la parola mi ha chiesto se mi ero trovato un lavoro. Io odio chi mi parla di lavoro.”
Jimmy scrive il suo destino in solitudine. Il mondo intorno a lui sta cambiando. A nessuno importa più dei “Mods”. La stampa li ha definitivamente abbandonati e gli scontri non divertono più neanche coloro che li aizzano. La gente comincia a portare i capelli lunghi, al posto delle pillole arriva la marijuana e quando si parla di rivolta se ne parla (ancora) in termini propositivi. Gli “Who” dal canto loro sono, alle porte del 1966, già lontani mille miglia dai giorni del marquee, dei “Mods”, degli stessi primi scontri di Brighton. La vita va avanti. Per tutti la vita va avanti, ma non per Jimmy. L’unica cosa da fare è farla finita, pensa. Come in “My Generation” non c’è più tempo per diventare adulti. Gli resta solo l’abito, il Parka e la sua lambretta. Simboli, lo ha capito, ormai vecchi. Solo il mare e gli scogli davanti a Brighton potranno accoglierlo. Quando Mark Feld verrà a sapere della scomparsa di Jimmy così commenterà: “A volte mi guardo indietro e quel che è stato mi fa sentire molto stanco.”
Da lì a poco Mark cambierà nome, scegliendo quello di Mark Bolan, un nome e un cognome che gli porteranno fortuna. Intanto, quel giorno, si chiude un capitolo. Definitivamente. Ci penserà, come abbiamo prima accennato, a riaprirlo proprio Pete Townshend nel 1973 con la composizione di “Quadrophenia”, un’opera rock non troppo lontana da queste vicende dove tutti hanno un posto all’infuori del povero Mark Feld, in quei giorni del ’73 con i suoi “T.Rex”, troppo famoso per essere menzionato in una storia senza vincitori quale quella dei “Mods”.
Bye bye Mark… Addio Jimmy!
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