Regia di Gabriele Salvatores vedi scheda film
CIAK MI GIRANO LE CRITICHE DI DIOMEDE917: NAPOLI – NEW YORK
C’era una volta un soggetto di 80 pagine scritto da un giovane sceneggiatore che veniva da Rimini e dal suo amico Tullio, con il quale scriverà altra bellissime storie, una storia molto neorealista. D’altra parte, lui aveva scritto Paisà con Roberto Rossellini e ancora non sapeva che sarebbe diventato il più importante regista italiano vincitore di ben 4 Premi Oscar più uno alla carriera.
Un giorno quel manoscritto capita nelle mani di un regista che veniva da Napoli anche lui vincitore di un Oscar e fu subito amore.
Napoli – New York di Gabriele Salvatores tratto da un’idea di Federico Fellini ha nella sua genesi una storia che potrebbe essere anch’essa un film.
Scritta alla fine degli anni ’40 risente molto delle influenze di quel cinema italiano post dopoguerra che raccontava un’Italia alla ricerca di una propria identità tra povertà e speranza in una vita migliore, una speranza che gli avevano donato gli Americani liberandola.
La Storia parla le vicissitudini di due scugnizzi di 12 e 9 anni, Carmine e Celestina. Siamo nella Napoli del 1949, quella raccontata da Curzio Malaparte. Il film si apre con il crollo di una palazzina fatiscente e un monologo iniziale che potrebbe essere tratto da una Commedia di De Filippo.
Questi due ragazzini sono dei senza famiglia di stampo dickensiano che trovano in loro stessi la forza di andare avanti. Una serie di eventi fortuiti li fanno trovare dentro una nave che da Napoli sta tornando a New York e senza volerlo diventano dei clandestini alla ricerca dei propri sogni e di una sorella che è “Nuova Yorche” dal suo grande amore conosciuto durante la Liberazione.
Con Napoli – New York, Gabriele Salvatores non fa semplicemente un film. Il suo è un vero atto d’amore per quel cinema di una volta che mescola De Sica ed “Eduardo” che viene contaminato dalla voglia di sperimentare tipica del regista napoletano che ci aggiunge pure sprazzi di C’era una volta in America (bellissima la scena dei due bambini che si riflettono in una pozzanghera come fecero Noodles e la sua banda allo specchio per evidenziare il loro stato di povertà rispetto al mondo che li circonda).
Salvatores nel raccontare questa sua favola mette a frutto la sua dimestichezza nel dirigere i giovani attori (come aveva fatto molto bene con Io non ho Paura e Come Dio Comanda) e soprattutto nello scegliere due volti che difficilmente si dimenticheranno, lo sfacciato e strafottente Antonio Guerra e la “Piccola Donna” Dea Lanzaro.
Pur rispettando lo spirito neoralista che sta alla base del soggetto, lo personalizza nella parte ambientata nella grande mela e lo trasforma in un film alla Frank Capra che dietro al racconto a lieto fine ci mette dentro razzismo, femminismo, intrighi politici supportati da una stampa alla ricerca dello scoop per smuovere l’indignazione della massa popolare. Insomma una storia scritta e ambientata negli anni ’50 che racconta dinamiche anche fin troppo attuali.
Gabriele Salvatores ha la grande abilità di non buttare tutto in una caciara retorica ma regalandoci “Grande Cinema”, di quello che si guardava la domenica pomeriggio con tutta la famiglia.
Bellissimo l’omaggio che rende a Federico Fellini attraverso il Paisà di Roberto Rossellini visto al cinema attraverso gli occhi sognanti della piccola Celestina che rivede “Ciro il Fachiro”, altrettanto intenso il contrasto tra prima e terza classe costretta a lasciare la nave a Staten Island iniziando il proprio percorso di emigrante in terra straniera e ostile, ma il top viene raggiunto nella scena dell’interrogatorio in carcere dove tutto l’istrionismo di Pierfrancesco Favino dove è veramente “Very, Very, ma molto Very” bravo.
Voto 7
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