Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
La carrozza di Versailles, con la sua concezione decorativa barocca, tesa alla ricerca della sovrabbondanza preziosista, racchiude alla perfezione gli eccessi estetici dell'ultima opera di Paolo Sorrentino. Si ritorna nel luogo di nascita, Napoli. Un'ultima volta e forse per sempre. Si cerca di voler tirare le somme sulla città di origine, partendo dal nome originario; "Parthenope" (2024), ovvero "colei che sembra una vergine", quindi una sirena, nome e caratteristica associata alla protagonista (Celeste Della Porta), che racchiude in sè tutti gli umori del posto. La "vecchia città" incontra la "Napoli"/"Neapolis", la "nuova città" rifondata dai greci sulla presistente. Una delle innumerevoli. E tante sono le stratificazioni multiformi dell'agglomerato urbano, da cui originano molteplici umori, sensazioni e vicissitudini dei propri abitanti.
Sorrentino, come l'antropologo Marotta (Silvio Orlando), invita lo spettatore a guardare senza giudizi morali.
Ma l'arte ha una sua "politica" intrinseca, frutto della mano del suo autore, altrimenti diventa un vuoto estetico. Si ricerca la poesia a tutti i costi, rincorrendo immagini sempre più belle, perfette e levigate. Ma la de-umanizzazione di esse, calza appieno sul personaggio di Parthenope. Eterna sirena, che attrae sguardi e desideri altrui, senza mai concedersi appieno a qualcuno, perchè questo significherebbe "sporcare" un sentimento. Allora si ritorna al discorso intrapreso sull'arte. Se l'unica parte del corpo femminile interessante è la schiena, come dice il cardinale (Peppe Lanzetta), perchè tutto il resto è pornografia, cosa resta dell'atto in sè?
Mero estetismo artefatto e coreografato. Sorrentino vorrebbe nuovamente rifarsi al libro di Raffaele La Capria, "Ferito a Morte" (1961), senza scendere davvero in basso, pur aggirandosi con aria smarrita nei bassi poveri e miserevoli di Napoli, in cui impera la criminalità.
La "grande fusione", manca d'incisività e vera provocazione, in quanto la morbosità avrebbe richiesto di sporcare l'atto. Privo della sagacia dello scrittore napoletano, si rincorre nuovamente il nume tutelare Fellini, in un amarcord di situazioni e scene, che arrivano a frammentare la struttura in una serie di quadri situazioni, andando dietro ispirazioni ed attrazioni ondivaghe. Una continua ricerca della meraviglia visiva, andando di provocazioni sovversive, senza mai andare nel profondo della superficie delle immagini.
Napoli racchiude in sè una bellezza decadente. Sorrentino l'attraversa assieme a Parthenope, in lungo ed in largo. Si concede addirittura un soggiorno al di fuori dell'area metropolitana, per un'ennesima sovrapposizione Pathenope/Capri, dove l'isola ha la forma di una donna distesa sul mare.
Queste ville lussiose, costruite su strapiombi, che vanno diritti verso l'acqua, fondono gli elementi di terra e mare, caratteristici della città, mentre sullo sfondo si staglia minacciosamente lo "sterminator vulcano"; creatore di tutto questo microcosmo.
Pathenope con il suo percorso di formazione e crescita, forse resterà un mistero per tanti spettatori, o più probabilmente fuffa pretenziosa quanto vacua secondo altri. Molto dipende dalla conoscenza del capoluogo campano, assolutamente necessaria, per comprenderne il suo cuore magmatico, colmo di eccessi contraddittori e miracoli fasulli spacciati per veritieri, o forse no.
Le pulsazioni di vitalità, non emergono dall'accumulo di dettagli sui monumenti, suicidi autoinflitti per incesti non praticati, tabù carnali violati dal cardinale puttaniere o frasi letterarie di un deprimente quanto spento John Cheever (interpretato da un Gary Oldman fuori fuoco, che rende poca giustizia al sagace scrittore di grandi pagine riguardanti l'Upper East Side).
Semmai, quando si ritrova un pò, quando il regista cede alla rabbia nell'invettiva a Napoli e suoi abitanti nella figura di Greta Cool (Luisa Ranieri), nella squadra di calcio vincitrice del terzo scudetto visto come nuovo miracolo a 33 anni dall'ultimo - riuscita in questo senso la "nave-carro" dei tifosi mentre cantano "Un giono all'improvviso") o nell'umorismo molto morettiano del professore di antropologia Marotta. Si rimpiange quindi, che nel rincorrere metafore, simbolismi e belle forme, il regista finisca con l'adagiarsi su Parthenope e l'eterea abbagliante bellezza della sua interprete.
La pur volenterosa Celeste Della Porta, manca di profondità nello sguardo ed inerte nel vissuto umano. Forse non tutto per colpa sua, perchè vittima del pigmalione Sorrentino, che rimira la propria creazione, in un continuo e vacuo campo e controcampo di sguardi, arrivando a smarrire la sincerità umana e schiettamente autobiografica di "E' Stata la Mano di Dio" (2021).
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