Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Non sono sicuro di essere la persona più giusta per scrivere di Parthenope. Il cinema di Paolo Sorrentino è un terreno minato di simboli, allusioni e seduzioni visive che, per chi come me non si sente particolarmente immerso nel suo linguaggio, possono confondere, sfuggire, sfociare quasi nell’illusione di un enigma. Per quanto l'abbia guardato con attenzione, non sono del tutto certo di aver davvero capito quale sia il mistero di Parthenope, questa protagonista eterea e concreta, quasi sospesa nel tempo e nello spazio. Viene spontaneo chiedersi: Sorrentino ci sta ingannando? Sta giocando con noi, lasciandoci intravedere significati e strati di verità che poi ci toglie improvvisamente da sotto i piedi? Parthenope non è una sirena, né una figura mitologica. È donna e storia, realtà e metafora, un frammento di Napoli in carne e ossa. Ma chi è davvero? Forse non siamo destinati a sapere la risposta, o forse Sorrentino ce la nega apposta, in un gioco che non vuole mai rivelarsi fino in fondo. Il cuore del film è (forse) un mistero che non vuole e non deve essere risolto. Invece di risposte definitive, Sorrentino ci offre domande aperte, immagini evocative, frammenti di un’esistenza e di una città che, come la protagonista, sembrano non appartenere a nessuno, se non a sé stessi.
Sorrentino è sufficientemente furbo da alimentare una sorta di raffinata truffa emotiva. A cosa starà pensando, infatti, il regista? È un quesito che risuona, in fondo, nella trama stessa di Parthenope, perché “a cosa stai pensando?” è una delle frasi ricorrenti del film. E questa domanda, insistente, seducente, non ha mai una risposta definitiva. In questo modo, Sorrentino non ci offre appigli, non ci consegna una vera trama; piuttosto, ci accompagna lungo un viaggio intimo, intriso di bellezza e di solitudine, dove la struttura narrativa si dissolve per abbracciare l’andamento della vita stessa, caotica e priva di significato assoluto.
Parthenope è, in effetti, un film enigmatico, che preferisce insinuarsi negli interstizi dell’esistenza piuttosto che spiegarla. Sorrentino ci lascia immagini sospese, un caleidoscopio di momenti che sembrano non trovare una sintesi precisa, perché forse la sintesi non esiste. Ci regala una Napoli che diventa specchio della protagonista e di noi stessi, lasciandoci, in fondo, soli con le nostre domande. Forse, proprio qui si cela il segreto di questo film: Parthenope non racconta la vita, la osserva da una prospettiva onirica e quasi divina, ricordandoci che, come nella vita, le domande prevalgono sempre sulle risposte.
A Sorrentino piace veicolare la bellezza, sia quella classica ed estetica, sia quella più nascosta e ambigua, persino quella che a prima vista può apparire repellente. La sua Parthenope incarna una sensibilità capace di scorgere lo splendore anche nelle situazioni più grottesche o mostruose, attraversando la vita con una visione che si nutre di contrasti e paradossi. Come se la bruttezza e la bellezza fossero due volti della stessa moneta, Sorrentino ci suggerisce che solo chi sa abbracciare le ombre può realmente cogliere la luce. Partenope riesce a guardare oltre l'apparenza, scavando nei recessi più oscuri della realtà napoletana, cogliendo un’armonia misteriosa che spesso sfugge agli altri. Così, Sorrentino celebra una bellezza totale, senza giudizi, capace di suscitare fascino e turbamento. E noi spettatori ci ritroviamo immersi in questa visione, trasportati in un mondo dove anche l’imperfezione, persino la deformità, assume un carattere sublime, perché alla fine è proprio nell'accettazione del mostruoso che si cela la bellezza più profonda.
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