Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
I ricordi sono una parte rilevante di ogni individuo. Che siano strabilianti o sgradevoli, nascosti/occultati in un scomparto remoto della memoria o collocati su di un piedistallo privilegiato, portatori di sensazioni indimenticabili/durevoli o di fratture mai del tutto sanate, hanno tutti una loro specifica/determinante importanza, più o meno prevalente, ed emergono quotidianamente o quando meno te lo aspetti, tramite connessioni naturali e/o involontarie, associazioni di idee/oggetti/fatti che regalano reazioni fuori programma.
Tra sorrisi e lacrime, affetti che hanno demarcato quella lunga/travagliata traversata chiamata vita e luoghi dell’anima che si amano o si detestano a seconda del momento, vanno a costituire una sconfinata gamma di pulsioni che fanno - a turno - capolino in Parthenope. Un’opera dall’aspirazione talmente elevata da non potere che finire attorcigliata su se stessa, contrassegnata da riflessi abbacinanti alternati ad anfratti oscuri/enigmatici, da figure incoraggianti e ingombri sinistri, da un pugno di certezze e capsule misteriose, adagiate sui ripiani di un repertorio riconoscibile dal primo colpo d’occhio. Un comprensorio dalla cifra stilistica conclamata, trasfigurata ed esorbitante, che probabilmente finirà per ampliare ulteriormente la forbice/voragine preesistente che separa gli ammiratori dai detrattori di Paolo Sorrentino. Un autore che – nel bene e nel male – viaggia in totale e imperterrita autonomia, tra intuizioni ragguardevoli e deficit lasciati impunemente in bella vista, con il coraggio e la sfrontatezza di chi si è guadagnato la notorietà sul campo (ovviamente, il tutto finisce per essere soppesato dalla sensibilità/ricezione e dalle esperienze pregresse del singolo spettatore).
Nata nel 1950, Parthenope (Celeste Dalla Porta) conquista subito tutti per la sua bellezza, assecondata da una notevole intelligenza. Tra incontri imprevisti, come quello che avviene con John Cheever (Gary Oldman – Dracula di Bram Stoker, L’ora più buia), e persone che la accompagneranno per buona parte del suo cammino, come il docente universitario Marotta (Silvio Orlando – Il portaborse, Il caimano), avvenimenti collettivi ed esperienze personali, con tanto di deviazioni, come quando sogna di diventare attrice, Parthenope cresce e cambia, assumendo decisioni destinate a incidere sulla sua esistenza, fino a quando, sul punto di andare in pensione (Stefania Sandrelli – Io la conoscevo bene, Sedotta e abbandonata), troverà ancora una volta il modo di sorprendersi.
Come già avvenuto per la gran parte delle opere dirette da Paolo Sorrentino, tra exploit improvvisi (Le conseguenze dell’amore e Il divo), successi internazionali (La grande bellezza), film intimi (É stata la mano di Dio) e opere scomode/oscurate (Loro), anche Parthenope suscita/sollecita un aperto/aspro confronto, in virtù di prerogative enunciate/enucleate senza farsi particolari conti in tasca, tra suggestioni e distacchi, voli pindarici e una sintetizzazione in pillole che schiaccia il respiro (talvolta sul più bello).
Con un arco narrativo che dura una vita, ma volutamente sbilanciato nelle sue fasi, e una linearità degli eventi che balza/volteggia da uno stadio all’altro aggregando parentesi storiche (quasi sempre risolte in un furtivo battibaleno), Paolo Sorrentino distilla istantanee tanto vistose quanto fugaci e racchiude quegli attimi fuggenti che ognuno conserva nella sfera dell’intimità, edificando una membrana fatta di filamenti che rappresentano così quella giovinezza che oggi c’è in tutta la sua voracità e improvvisamente scompare, finendo alle spalle, catalogata nel libro dei ricordi.
Da questa impostazione, compare, prende forma e si sviluppa un racconto dall’essenza estemporanea, plasmato a immagine e somiglianza del suo autore (ad esempio, torna il calcio, con lo scudetto del Napoli), che sviscera emozioni sincere e straripanti, tra uno scenario reale e un tocco di fantasia, colpi di fulmine e appuntamenti mancati, in un miscuglio di immagini (la fotografia di Daria D’Antonio – Ricordi?, Il miracolo - regala squarci che fanno la differenza) e di parole (con frasi fatte che mai nessuno si sognerebbe di dire), di domande (sussurrate o semplicemente rimaste sospese) e risposte (parziali, impossibilitate dall’essere conclusive/soddisfacenti), convivendo con la malinconia e lo stupore, con il sacro e il profano, con la luce del mare e il buio dei vicoli, con il sublime e il risibile, che si alternano senza ripiegare sulle mezze misure.
Una disposizione pulsante e sfuggente, estremamente mutevole e straniante, che oltre al debutto considerevole di Celeste Dalla Porta, celestiale come presenza quantunque trattata con i guanti di velluto (non le viene chiesto/imposto di andare oltre, cioè di fare miracoli), trae significativi benefici dai satelliti di contorno, innanzitutto con un Silvio Orlando sugli scudi, il vero pezzo da novanta che scandisce buona parte dei frangenti maggiormente riusciti, e in secondo luogo con l’azzardo sorrentiniano affidato a Peppe Lanzetta (Take five, L’amore molesto), mentre lo spazio dedicato a Gary Oldman è purtroppo troppo liminale per assumere una definizione dirimente.
Alla fine, Parthenope è un componimento dai tanti volti e di altrettanti stop and go, che non sposta più di tanto la considerazione complessiva che si può avere su Paolo Sorrentino. Un esemplare di cinema capace di incastonare atolli meravigliosi per poi perdersi in meandri meno riusciti, di catturare l’essenza della bellezza e subito dopo di scivolare in dissertazioni periferiche, in grado di stupire e poi di rammaricare, tra eccessi e distrazioni, con i paesaggi esteriori che sovrastano quelli interiori, eppure conservando una grafia costantemente fedele a se stessa, che dà del tu alla materia che maneggia, donando energia a un bagaglio che custodisce dei cerchi magici, all’interno dei quali qualsiasi aspetto potrebbe detenereun senso ammissibile.
Appariscente ed effimero, stordente e cangiante.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta