Regia di Dea Kulumbegashvili vedi scheda film
E se dovessimo vederla in un modo diverso dal letterale? Cioè: forse un racconto sull’aborto in un paesino della Georgia non è “solo” un racconto sull’aborto in un paesino della Georgia. Che forse non ci sia da andare oltre alcune caselle critiche prestabilite come “narrativa”, “realismo”, “psicologia”? Per intenderci, la politica arriva come arriva quasi sempre, ma forse con April di Dea Kulumbegashvili bisogna fare un attimo il giro lungo, e dare una fiducia insolita e più elevata.
La prima immagine di una creatura antropomorfa rugosa e cadente che cammina lentamente su un formato nero in 4:3, di spalle, urla a pieni polmoni “White Epilepsy” di Philippe Grandrieux, ed è subito un interpellare il corpo come pura presenza sullo schermo, un corpo simulacrale con cui interagire percettivamente, fuor di ambizioni simboliste. Il resto del film cammina, lentissimo, su una costante risignificazione di eventi narrativi nella direzione del puro sentire: un gesto rallentato, un silenzio innaturalmente lungo, un evento lasciato al suono e quindi al fuoricampo. La regista georgiana di Beginning sa che il Cinema è un luogo preferenziale per sentire il reale in un altro modo, su un canale differente. Le sensazioni che ne possono derivare pertengono a uno spettro incatalogabile, che vale la pena esplorare. Anche e soprattutto se si tratta di corpi che gli eventi mortificano, derubano, demoliscono. Così la sequenza di aborto è una sequenza di aborto ma vi possiamo accedere da un’altra via, con una percezione altra e massimizzata del corpo della giovane ragazza che lo sta subendo.
Il film diventa così una mappa dei corpi e del Corpo, un atlante anatomico che riconsegna allo spettatore non una lettura univoca delle sue immagini ma la sorgente da cui proiettare infinite altre sensazioni. Un interrogativo diretto allo spettatore su come si guarda il corpo al cinema, se l’energia che si può far sprigionare da esso sia vitale o mortifera o entrambi, se non esista definizione che possa dire l’ultima sul sentire il corpo al cinema. Infine, sentire come strategia (politica) per avvicinarci ai corpi delle persone più lontane e distanti da noi. Un lungo giro per vivere un’empatia che le classiche narrazioni cinematografiche non possono concedere, frizionate da retoriche, dietrologie di significato, interpretazioni critiche. Se in April il corpo di una partoriente è inquadrato come potenziale sensitivo esattamente come un temporale, un fiore, un bue, allora è perché April interroga il cosmo sull’aborto come incrocio massimo della vita e della morte sul corpo delle donne. E non ha nulla di punitivo, bensì di ecumenico e solidale: sarebbe importante che prima di dare giudizi politici e sociali, in qualsiasi film, prima si indagassero i veri nuclei subatomici del nostro sentire gli oggetti e i corpi. Allora forse sì, da una rivalutazione della sensazione come luogo oscuro e imponderabile, lì si potrebbe crescere più coscienti. E attraversare, nonostante certo accademismo e alcune pose eccessive, la radicalità del gesto cinematografico di Dea Kulumbegashvili.
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