Regia di Shawn Levy vedi scheda film
Costruito sulla potenziale eccitazione onanistica dello spettatore, “Deadpool & Wolverine” di Shawn Levy (2024), terza pellicola della saga dedicata al mercenario chiacchierone, segna il trionfo del corpo e del godimento del duo protagonista, ponendolo ad architrave di tutta l’operazione.
La tutina rossa attillata ed ultra-aderente calzata da Wade Wilson/Deadpool (Ryan Reynolds), si combina perfettamente con il costume giallo, atto ad esaltare la possanza dei muscoli di Logan/Wolverine (Hugh Jackman). I due supereroi - ma in realtà gli attori impersonanti, data l’operazione spinta a tutta meta ed oltre -, danzano tra loro nell’arco delle due ore filmiche, in un tripudio di coreografie action, che avvicinano tutta l’operazione ai musical anni 80’, dove l’estetica dei corpi la faceva da padrona. Deadpool è la ballerina coreografa, mentre Wolverine il partner maschile. L’esilità longilinea del mercenario, ne esalta l’agilità ed il dinamismo, a fronte della fisicità del mutante dagli artigli di adamantio.
Salti ed acrobazie, si mescolano a budella squartate e teste trapassate, in un tripudio di corpi smembrati e disassemblati all’infinito, attraverso una danza-scontro senza fine e senza inizio.
La sceneggiatura scritta da ben cinque individui - tra cui lo stesso Reynolds e regista -, rifiuta ogni indagine a ritroso alla ricerca della causa prima, per soffermarsi solo su quella efficiente data dai personaggi.
Come conseguenza è un film che dal principio e conclusione, risulta pervaso da un alone di morte, che assume le fattezze di Alioth, simbolo dell’un universo cinecomics della Fox che fu.
Il “Vuoto”, in quanto spazio fisico in cui Deadpool e Wolverine vengono confinati, diventa l’emblema di una formula cine-comics allo sbando totale, essendo costretta a ripescare rifiuti/scarti di un’altra epoca ed un altro modo di produrre opere appartenenti a tale filone. Le idee nuovamente ri-sfruttate, sono fuse con immaginari consolidati, presi di peso da saghe come Mad Max, senza alcuna minima variazione, toccando l’apice del furto plateale della messa in scena, nel costume e look finale dell’antagonista Cassandra (Emma Corrin), totalmente indistinguibile dalla Furiosa dell’omonimo film di Miller.
In assenza totale di una qualsiasi trama, che quando vuole narrare qualcosa si perde nella totale implausibilità di un mcguffin contorto, si finisce con procedere per accumulo di personaggi e camei meta-narrativi prodotti in stile catena di montaggio, senza che tali figure riescano ad avere una propria auto-giustificazione intrinseca. Il piacere sciattamente estrinseco, trionfa malamente su quello filmico, perdendosi dietro ad un’orgia di turpiloqui, battute sessuali squallide, smembramenti e violenza al ketchup.
Nella debolezza del tutto, Levy si aggrappa alle due super-star della Fox di un tempo; l’immancabile Deadpool ed il sempre eterno Wolverine.
Il cineasta ha l’arguzia, di mettere la macchina da presa al servizio del più famoso dei mutanti, evidenziandone la muscolatura e l’imponente fisicità, che esplode letteralmente sullo schermo in tutta la sua potenza virile.
L’omoerotismo della relazione tra i due protagonisti, emerge tanto nei costumi indossati - Logan viene assemblato ex-novo nell’operazione di riappropriazione del personaggio da parte della Marvel - quanto nei combattimenti. Tra pugnalate e trapassi del corpo, i due supereroi si uniranno nella vivida carne in macchina nell’unico amplesso da loro concepibile; uno scontro machista senza fine all’arma bianca, facendo così sgrillettare nel “calzino speciale”, tutto il piacere represso dai nerd, in anni ed anni di immaginario relegato alla sola carta stampata.
Nella lotta tra la vecchia Fox ed il presente vittorioso della Marvel/Disney, vincono gli incassi, ma perde la qualità dell’intrattenimento al cinema, perso in sterili operazioni meta-narrative, costruite sul mero citazionismo incomprensibile ai più e ad una struttura a sketch di 10 minuti, tra un set all’altro imbastardendo, depotenziando e imborghesendo la tipicità dignitosa di personaggi (per quanto il loro anticonformismo fosse dal principio più programmatico ed a portata del quattordicenne che scopriva le parolacce), oramai divenuti ennesime pedine senza costrutto di forma, all’interno di un universo senza anima e mediocremente auto-referenziale.
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