Regia di Tim Burton vedi scheda film
All'insegna di un'applicazione dei principi non sempre coerente di Tim Burton, verso un sistema produttivo a cui ha (almeno in parte) aderito, con "Beetlejuice Beetlejuice" (2024), il cineasta americano sembra voler fare ammenda degli errori commessi negli ultimi 15 anni, dove tra Disney e Netflix, ha banalizzato la propria arte.
Tutti sbagliano in quanto esseri umani, pure gli stessi personaggi del film. Lydia Deetz (Winona Ryder), come Burton ad un certo punto, ha svenduto il proprio dono di vedere i fantasmi, a favore del successo televisivo basato su fenomeni paranormali. Vita agiata e ricchezze sono arrivati, ma l'anima pura dell'outsiders è andata persa, dietro la fama ed i soldi; elementi propulsivi del capitalismo incarnato dal suo attuale compagno Rory (Justin Theroux), che sfrutta i "freaks" come mezzo per monetizzare.
Dietro un'inclusione del diverso, si cela una mera accoglienza di facciata; falsa, al pari delle case inquadrate dall'alto in apertura di film, dove poi si disvela un set televisivo. L'alternativo (Lydia) è stato inglobato, normalizzato e sdoganato dal capitale, sempre alla ricerca di un profitto maggiore.
Il sonno in cui Lydia è immersa da anni, non può che venir scosso dalla figlia Astrid (Jenna Ortega), politicamente impegnata a favore dell'ambiente e fautrice di una visione empirica della conoscenza umana.
Rispetto al primo "Beetlejuice" (1988), vengono moltiplicati i personaggi al pari degli intrecci narrativi. Questo causa uno scompenso nella struttura narrativa di un'opera, che fatica molto allo stare dietro alle varie interconnessioni, in quanto Burton non è mai stato un cineasta da grandiose costruzioni di trama, quanto un visionario creatore di mondi, in cui tratteggiare figure varie di freaks.
In tale senso Lydia, Astrid, Delores (Monica Bellucci), Delia (Catherine O'Hara) e Wolf Jackson (William Dafoe), esplodono nel loro pieno potenziale solo nel secondo e terzo atto, in netta controtendenza rispetto ai canoni del cinema americano contemporaneo, dove si inizia alla grande e poi si finisce malamente in netto calo.
Beetlejuice (Michael Keaton) è il detonatore, che innesca la bomba filmica, attraverso una comicità slapstik, atta a colpire tutto e tutti, dando luogo a continui ribaltamenti, a cui risultano essere estranei solamente Rory ed il reverendo, figure logicamente piatte, perché testardamente ancorate alle loro malsane ideologie omologanti.
Certo, l'immaginario fatto di geometrie non euclidee, costruzioni alla Escher e luci intrise di un goticismo-pop, non viene rivoluzionato rispetto al capostipite, semmai subisce addizioni, tipo il "Soul Train". Questo potrebbe far indispettire i tanti (troppi), detrattori di Tim Burton, che potrebbero sostenere di trovarsi innanzi ad una vuota forma. Un involucro vuoto, come quello lasciato da Dolores, ogni volta che succhia via l'anima dalle proprie malcapitate vittime.
Eppure è una messa in scena creata ex novo dallo stesso regista, in grado di ritrovare freschezza, dichiarando nuovamente amore verso "Il Gabinetto del Dottor Caligari" (1920), "La Moglie di Frankenstein" (1931) il cinema di Mario Bava (esplicitamente citato, con tanto di parto di Lydia avvenuto durante la sua presenza ad un festival dedicato al più grande regista di genere italiano dietro al solo Sergio Leone) e l'uso abbondante di effetti pratici, tra cui la stop-motion (la sequenza animata ed il verme delle dune di sabbia), che rendono questo sequel a distanza 36 anni, più che una mera operazione nostalgia, un vero e proprio atto di resistenza nei confronti di una deriva sciattamente digitale delle multinazionali del cinema. Netflix e Disney tra tutte, vengono messe sul banco degli imputati da un Burton vittima in passato dei loro malefici influssi, che come la sua Lydia cerca redenzione ed ammenda, per gli errori commessi, per il tramite del surreale Beetlejuice e della sua nuova giovane musa Jenna Ortega.
I colossi multinazionali del cinema sono destinati ad una legge del contrappasso implacabile. Vittime del loro stesso complesso di narciso omologatore atto a ritirare sè stesso in perpetuo.
Burton quindi ribadisce l'assoluta impossilità di una coesistenza che possa unire la società commerciale alienante e massificatrice odierna, con coloro che hanno una visione antipodica ad essa.
Pena il venire inesorabilmente livellati dai desideri di un capitale, capace solo di svilire e banalizzare qualsiasi alternatività.
Meno equilibrato ed originale del capostipite, questo seguito di Beetlejuice, mostra un regista capace di rifilare zampata di gustosa cattiveria, all'insegna di un cinema privo di retorica e facili buonismi, passando dall'umanesimo e transumanesimo dell'essere ad un'invettiva contro il conformismo socio-multimediale. Persino l'essenza della morte, vista in una luce più ironica e liberatoria nel film del 1988, qui diviene, un grottesco contrappasso dantesco, dell'infernale mondo dei vivi, in cui si trova un barlume di speranza solo nell'ignota meta del "Soul Train".
In mezzo a ciò, solo l'abbraccio tra diversi può fungere da salvezza, perché il pensare altrimenti, consente di pensare liberamente e vedere diversamente.
Qualora ciò dovesse venire nuovamente dimenticato, ci pensa l'orrore di Beetlejuice a ricondurre l'alternativo, su un proprio percorso personale.
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